Contributo apparso sulla rivista svizzera di architettura, ingegneria e urbanistica “archi” dedicata ai “luoghi e architetture del cinema” (4 / 2018).

Come ha osservato Johannes Binotto, per il cinema non c’è scampo dall’architettura: se non c’è quasi luogo dove possa posarsi la telecamera che non contenga elementi architettonici, ogni film si trova inoltre a dialogare con il territorio in cui viene girato. E tuttavia l’occhio della telecamera erode e trasforma gli spazi che cattura, anche quando cerca di rappresentarli fedelmente.

Selezionando quali caratteri di una zona inquadrare, il regista crea inevitabilmente un nuovo territorio che porta i segni dei suoi interessi: magari lo epura dagli edifici contemporanei lasciandovi solo costruzioni storiche, oppure, al contrario, esclude le seconde a favore dei primi; magari cerca di restare il più prossimo possibile alla realtà locale, oppure la trasfigura rendendola incollocabile nel tempo e nello spazio.

Questo processo si intreccia allo sviluppo del film, che si tratti di un’opera di finzione o di un documentario: ambientazioni e trama si rispecchiano e si influenzano, costruendosi insieme e ri-costruendo gli spazi inquadrati. Per capire meglio come si articoli questa relazione, ho chiesto a nove registi attivi in Ticino in che modo nel loro lavoro si accostino al territorio.

Fulvio Bernasconi

«Nella scelta dei luoghi di un film si parte da una sceneggiatura con le indicazioni di massima; personalmente poi mi faccio guidare da quattro aspetti (a cui, naturalmente, si aggiungono un sacco di cose pratiche: come ha detto Godard, non si fa quel che si vuole, si fa quel che si può…). Innanzitutto, la caratterizzazione dei personaggi: non sono lo stesso personaggio se cresco a La Gerra o a Montagnola… C’è poi un aspetto semantico: un’ambientazione dice qualcosa; ad esempio, il combattimento in una piscina vuota alla fine del mio film Fuori dalle corde ha chiaramente una componente simbolica. Il terzo aspetto è drammaturgico: raccontare una storia significa porre davanti ai personaggi degli ostacoli da superare, cosa a cui il paesaggio partecipa. Ad esempio, l’inseguimento di un camion in Miséricorde è girato nel nord del Canada; quel paesaggio – una distesa di 800 km – rappresenta un ostacolo fisico per il protagonista: non sarebbe stata la stessa cosa se avessimo lavorato tra Bulle e Friborgo… Infine, un aspetto che definirei sensoriale: un paesaggio trasmette un certo mood, che si collega anche al genere del film.
Il rapporto tra la trama e lo spazio è di reciprocità: se è vero che lo spazio aiuta a caratterizzare quel che succede, è pur vero che quel che succede caratterizza lo spazio, lo trascende e lo trasforma».

Alberto Meroni

«Quando inizia la proiezione di un film lo spettatore viene immerso in un mondo creato dalle maestranze che fanno cinema dirette dal regista. Queste sono capaci di ambientare storie nel passato, nel futuro, nel presente ordinario o straordinario, su altri pianeti e via inventando. Non c’è limite alla creatività, ma quello che accomuna qualsiasi scenario è la sua credibilità: deve risultare realistico, anche se la storia è ambientata in un mondo irreale. Per questo motivo nei miei film ho sempre creato mondi sfruttando dettagli della nostra regione e non la regione stessa. Sono andato alla ricerca di «texture» architettoniche come facciate, strade, muri e locali che fossero idonei all’ambientazione delle scene. Nei miei film non è palese riconoscere i luoghi perché gli ambienti non sono protagonisti ma sono stati adattati, ripresi e manipolati per essere utili alla storia, e questo perché ho narrato storie di finzione ispirate alla nostra realtà. Conosco la nostra regione molto bene e questo mi permette di ipotizzare i luoghi in cui ambientare le scene già durante la stesura della sceneggiatura: ritengo sia ottimale adattare la scrittura al luogo, non viceversa. Altrimenti si rischia di creare situazioni irreali che irritano lo spettatore – e purtroppo spesso capita».

Mohammed Soudani

«Il mio lavoro consiste nel raccontare storie che hanno come location il mondo. Ma ho anche girato film e documentari che hanno come ambientazione il territorio ticinese. Vivo qui da più di 40 anni e lo conosco bene… Se giro un film in Ticino, il Ticino e la sua architettura diventano protagonisti insieme agli attori. Credo che sia molto importante, specialmente quando si tratta di delineare una storia che parli di un territorio preciso. Sono molto esigente: voglio che lo spettatore riconosca il luogo quando vede il film. Se è necessario andare nel deserto, allora si va nel deserto: grazie a mia moglie, che conosce Bruno Ganz, per Taxiphone l’abbiamo portato nel deserto algerino… Di tutto questo discuto con lo scenografo, che in base alla sceneggiatura mi dà dei consigli. Poi si va a fare i sopralluoghi, e allora ti rendi conto che in quegli spazi non riuscirai a mettere tutto… Magari la casa che abbiamo scelto è interessante, ma ha uno spazio troppo stretto per il controcampo, e quindi per girare quello andiamo in un altro luogo e poi, con lo scenografo, li combiniamo montando il film. Il cinema è anche inganno, in un certo senso… cerca di far uscire le emozioni, e le emozioni superano la realtà».

Erik Bernasconi

«Nei miei film seguo una geografia emotiva, declinata in modi diversi. Nel primo, Sinestesia, è molto chiaro: ho immaginato e girato le scene in luoghi che conoscevo del Sopraceneri, dove sono nato e cresciuto. Con il direttore della fotografia eravamo d’accordo di non proporre delle cartoline del nostro bel Ticino, ma la verità è che, anche se riprendi il campetto di basket di Camorino, dietro ci sono le montagne… Ho riso quando, a un festival in India, mi hanno detto: «Che meravigliosi paesaggi!». Fuori mira è sempre ambientato nel Ticino che conosco, ma è girato in Alto Adige per ragioni produttive; sono quindi andato a cercarci posti che sembrassero il Ticino. Questo mi ha dato un’opportunità: trattandosi di una favola morale, non volevo puntare il dito su una zona specifica del Cantone. Fare le riprese altrove ha fatto sì che nessuno potesse dirmi: «Ce l’hai proprio con noi!». Ora invece sto terminando un documentario su Omegna, una cittadina sul Lago d’Orta. Non mi interessa il suo paesaggio: la scintilla di passione per il progetto è scaturita immergendomi nelle fabbriche vuote, dove riconoscevo tanta vita che ora non c’è più: è il racconto di una florida cittadina industriale dove è rimasto molto poco».

Klaudia Reynicke Candeloro

«Le location sono veri e propri personaggi, talvolta anche protagonisti. Per le storie che racconto è importante che abbiano identità proprie e peculiari. Non sono forzatamente attratta da luoghi grandiosi o colossali, ma al contrario mi piacciono gli spazi discreti, intimi e pieni di carattere, e il territorio ticinese ha la rara forza di poter offrire tutto ciò di cui ho bisogno. Ad esempio ha giocato un ruolo molto importante in Il nido, dove i luoghi in cui ho filmato sono restituiti come sconosciuti, immaginari, non necessariamente identificabili. La sceneggiatura racconta di una comunità chiusa su se stessa, e sono stata immediatamente attratta dal lato più aspro e selvaggio delle Centovalli, dove le mie ricerche di luoghi e ambienti, naturali e abitati, si sono poi fatte più specifiche. A Palagnedra mi sono resa conto di aver trovato la dimensione perfetta. Qui il territorio ha preso il sopravvento e la scrittura ne è stata molto influenzata. È un luogo speciale, uno dei pochi villaggi che ho visitato dove si poteva filmare a 180 gradi dando una sensazione di “respiro” alla storia, ma in modo anche contraddittorio: pare essere posto su una piccola montagna la cui vetta è affettata e a sua volta circondata da altre montagne. Una situazione particolare, che dà una sensazione di doppio isolamento».

Alessandra Gavin-Müller

«Tutto parte sempre da un luogo, da una promessa. Il bosco, un bar, l’entrata di un edificio, l’ombra di una struttura, i riflessi o il suono di una corte. Potrebbe essere il luogo dove due persone si incontrano, dove si separano, dove uno trova rifugio. Il luogo è sempre una promessa, un «e se?». E poi diventa come una conversazione: i personaggi parlano ai luoghi e i luoghi strattonano, proteggono, traghettano i personaggi. Così nasce la storia. Così la casa Bianchi di Riva San Vitale diventa la torre che protegge i miei personaggi e permette di scrutare il futuro, le gole della Breggia promettono loro una casa e il monte Tamaro uno slancio. Mi commuovo quando vedo queste promesse, queste potenziali storie, questo fluire di vita in luoghi costruiti o in natura. Mi commuovo perché c’è molta umanità, pensiero, visione nei luoghi, molta poesia e potenza. Ci sono molte storie e le storie lasciano dei segni, delle tracce, fisiche, inaspettate. Così, per girare un documentario sul sanatorio di Medoscio, dove venivano curati i bambini tubercolotici, mi sono trovata davanti due edifici: uno, ormai fatiscente, immaginato da un vescovo, un medico, un architetto e delle suore visionarie, l’altro costruito dall’intenso ricordo di chi ci ha passato parte dell’infanzia».

Niccolò Castelli

«In Tutti giù ho cercato di raccontare una generazione e una Lugano. Intenzionalmente, non ho girato neanche una scena in via Nassa o piazza Riforma, non perché non mi piacciano, ma perché la Lugano che ho vissuto è quella di Molino Nuovo, dello skatepark, di architetture che magari non sono “belle” nel senso più condiviso del termine. Mi spiace che spesso il Ticino venga visto attraverso clichés turistici… Portando il film in Canada e Cina, mi ha fatto piacere che il pubblico dicesse: “Ah, ma non avete solo mucche e banche!”.
Dagli anni Novanta, Lugano ha iniziato a diventare una vera e propria città; nel film volevo mostrarlo. Così ho scelto di fissare sulla pellicola posti che sapevo sarebbero cambiati: uno stabile in via Trevano prossimo alla demolizione, la stazione prima della ristrutturazione, strade che avrebbero invertito il senso di marcia… Molto riconoscibile è l’autosilo di via Balestra: imponente e centrale, caratterizza Lugano in senso urbano. Con queste scelte non volevo “fare il metropolitano”, ma mostrare come i miei personaggi percepissero la città: quando hai 20 anni il tuo quartiere, per quanto piccolo, diventa la tua metropoli. Per tutto il film si è quindi calati, come loro, in pochi metri quadrati; poi, nel finale, la camera si allarga e si vedono il lago, le montagne. Un’inquadratura che rimette le cose al loro posto, collocandole in un contesto più ampio».

Villi Hermann

«Perché giro in Ticino? Ho una risposta pragmatica: siccome i soldi per il cinema al 99% arrivano da Cantone e Confederazione, e quindi dalle imposte, se la sceneggiatura non chiede di andare, chessò, a Honolulu, non vedo perché non lavorare in Ticino. In più lo conosco abbastanza bene e posso avere un – ma è un’espressione impegnativa – approccio critico su questo territorio dove vivo, lavoro, creo i miei film e produco quelli di giovani cineasti. La scelta del luogo in cui girare è economico-artistica. Nasce sempre da una dura discussione tra il regista, lo scenografo e la produzione e dipende dalla sceneggiatura e da una certa logistica: girare una scena a Lugano e poi andare in Val di Muggio significa spostare una troupe di 25-40 persone, che per mezza giornata non lavora, e poi trovare i posteggi, l’alloggio, un ristorantino per tutti… Ho appena prodotto, ad esempio, il primo film di Francesco Rizzi, Cronofobia; abbiamo girato un po’ a Lugano e in gran parte nel Mendrisiotto, perché è il suo territorio e lo conosce bene; ma già andare verso Magadino ci ha fatti discutere: ne vale la pena? Alla fine abbiamo deciso di sì, perché quel luogo era necessario nella costruzione del film».

Olmo Cerri

«È abbastanza certo che il territorio influenzi il mio lavoro, non solo per le ragioni a cui sarebbe facile pensare (legame affettivo, conoscenza, vicinanza…). Quasi sempre, i bandi e le commissioni che decidono di finanziare un progetto esigono un «chiaro legame con il territorio». Anche gli indici d’ascolto televisivi premiano quei prodotti che del territorio ticinese fanno un elemento centrale. Questi meccanismi produttivi fanno sì che il nostro cinema, invece di essere un «telescopio» che ci permette di conoscere mondi lontani, si trasformi troppo spesso in un “videocitofono”. Un cinema che racconti ossessivamente il proprio territorio nella migliore delle ipotesi ci permette di riflettere sulla nostra identità e magari metterci in discussione; nella peggiore, diventa una rassicurante autorappresentazione, con tratti populisti, che contribuisce a rinsaldare le idee stereotipate attorno a cui abbiamo costruito la nostra immagine.
Tenendo presente che il territorio è lo spazio attorno a cui pisciano i cani, occorre conciliare le varie istanze e cercare di fare un cinema legato al territorio che però non «chiuda» ai rapporti con il mondo, ma che ne metta in luce le interconnessioni e le spinte di apertura».