Conversazione con Olmo Cerri, di Sebastiano Caroni, uscito su La Regione di Sabato 7 maggio 2016

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Quando si parla, o si scrive, di silenzio, è opportuno fare una premessa: il silenzio assoluto non esiste. C’è un aneddoto che illustra bene questa premessa. John Cage, musicista d’avanguardia  interessato al ruolo che il silenzio gioca nella musica, un giorno visitò la camera anecoica dell’università di Harvard. Nonostante l’ambiente completamente insonorizzato di questa camera, quando ne uscì non mancò di far notare come al suo interno avvertisse in modo distinto due suoni. Come lo informò prontamente il tecnico addetto alla camera anecoica, il primo suono era quello del cuore che batteva, e l’altro il fischio ininterrotto del sistema nervoso.

Data questa premessa, si può intuire che quando si parla di silenzio non è del silenzio assoluto che si parla. Come Cage ammise, il silenzio in sé è utopico, in quanto il suono permea ogni momento e ogni ambiente della nostra vita. Nella sua celebre composizione in tre movimenti intitolata semplicemente 4’33’’, è il rumore d’ambiente a essere protagonista, il suono del coperchio della tastiera che si apre e si chiude all’inizio di ogni movimento, i colpi di tosse, gli schiarimenti di voce, i fruscii improvvisi e altri rumori del pubblico. Come Cage riferì dopo la prima esecuzione a New York il 29 agosto del 1952, il pubblico non capì subito il significato della composizione, che pure era tanto evidente quanto scioccante, e forse per questo difficile da accettare: rimanendo in silenzio, in ascolto, si scopre che il silenzio totale non esiste.

Forse sarebbe più appropriato parlare di esperienza del silenzio, allora. E chi dice esperienza, dice sensibilità che sperimenta, ma anche linguaggio, significato, cultura, e società. Consultando una bibliografia tematica, ci si accorge che esistono molti modi di trattare l’esperienza del silenzio; molte sono le discipline che raccontano questa esperienza, e tanti sono gli orientamenti e gli autori che la affrontano. Ma se molti sono i modi di dire il silenzio, non è per nulla scontato trovare il modo di far parlare il silenzio. In un contesto audiovisuale, Olmo Cerri ci ha provato con un’opera video che mette in scena le variazioni espressive generate da un atto apparentemente semplice come quello dello stare in silenzio. Mettendo al centro del suo esperimento delle persone che, come nel concerto di Cage, stanno sedute in silenzio, ha prodotto una testimonianza audiovisiva delle molteplici variazioni sul tema dell’esperienza del silenzio.

Nato nel 1984, dopo essersi diplomato alla SUPSI come operatore sociale Olmo ha frequentato il Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di Lugano. Ha collaborato con la Radiotelevisione svizzera per la trasmissione culturale “Il Balcone” e per “La Tele”. Diversi suoi documentari sono stati diffusi dalla RSI e hanno partecipato a festival in Svizzera e in Europa. Ha sviluppato e sceneggiato la serie “Il passato che ritorna”, selezionato al bando RSI, e diversi progetti di webserie. In questo periodo è in pre-produzione il suo documentario “Non ho l’età”. Dal 2013 collabora come regista per la trasmissione “Patti Chiari”.

Maggiori info sull’installazione

S.C: Olmo, ci puoi raccontare in cosa consiste la tua opera video sul silenzio e come è nata? 

Sono stato contattato dagli organizzatori di una rassegna dedicata al silenzio (“Sensi del silenzio”, allestita presso la Biblioteca Cantonale di Bellinzona fra ottobre e dicembre del 2014) che mi hanno chiesto di proporre un video da inserire in un’istallazione scultorea, pensata da Erminia Mossi. La mia riflessione è stata semplice: quando si montano dei documentari spesso e volentieri sono preziosi quei momenti di silenzio al termine delle interviste. La persona intervistata finisce di parlare e rimane in attesa della domanda successiva. In questi brevi istanti (che ho imparato a prolungare artificialmente proprio per l’importanza che possono avere in fase di montaggio) i soggetti intervistati producono una serie di micro movimenti, di espressioni facciali, di sguardi ricchi di significato e spesso molto emozionanti. A volte sono più salienti e ricche le pause fra le parole che le parole stesse e non solo perché mettono in risalto quanto detto subito prima o subito dopo. È per questo che abbiamo voluto provare a stravolgere in maniera paradossale questo principio, chiedendo alle persone di rimanere in silenzio davanti alla camera, senza altre indicazioni, per un tempo stimato di circa un minuto. Abbiamo allestito un piccolo set all’interno della biblioteca in modo che la messa in scena fosse il più possibile definita e quindi paragonabile, e abbiamo cercato fra gli utenti della stessa le persone che volessero partecipare. Da questo “censimento” dei silenzi personali abbiamo poi montato un video in loop, senza un inizio o una fine prestabilita. La durata di un intero ciclo era di 49 minuti e venti secondi ma ogni persona poteva entrare e uscire liberamente dal set.  

S.C:  Con la tua opera video, hai mostrato come dei silenzi apparentemente banali in realtà rivelano una ricchezza di significati e una quantità sorprendente di informazioni. Come spieghi tutto ciò?  

Il silenzio è personale e può essere quindi biografico. Ognuno di noi ha un modo diverso di “stare in silenzio” e di gestirlo, confrontandosi con i fantasmi che porta con sé: l’imbarazzo (per la richiesta particolare e per la presenza di una camera), la gestione del tempo (un minuto stimato è molto diverso per ognuno), l’impossibilità di rimanere in silenzio per cause esterne (notifiche sul cellulare, colpi di tosse, bisogno di commentare o di parlare fra sé e sé). Restando in silenzio sveliamo particolari di noi che spesso sono coperti e mascherati dalla nuvola di parole e rumori che produciamo. Avere in un unico video giustapposti diversi “stili” di silenzio permette di apprezzarne le variazioni e le diversità. Il set era all’interno di uno di quei luoghi caratteristici in cui il silenzio è ritualizzato: una biblioteca. Abbiamo lasciato in campo un microfono e sullo sfondo, dietro ad un piccolo pannello fonoassorbente erano presenti una serie di faldoni grigi. 

S.C: Prima, mentre chiacchieravamo, mi hai confessato che la tua opera video ha suscitato diverse reazioni, ma non tante quante te ne saresti aspettato, e questo nonostante l’originalità e la pertinenza dell’opera siano state ben testimoniate da chi l’ha potuta vedere. Hai mai pensato di riproporre la tua opera video, magari in un altro contesto?

Mi sono accorto che, in generale, è difficile ottenere reazioni “di massa”. Dopo ogni proiezione si ricevono spesso commenti e opinioni, anche toccate o commosse, ma si tratta sempre di reazioni singole. Forse è giusto e normale sia così. Non ho mai pensato di riproporre l’installazione anche perché era legata intimamente allo spazio in cui è stata proposta (la Biblioteca Cantonale). Si potrebbe forse riproporre l’intero esperimento anche in altri luoghi per capire come essi influenzano le varie qualità di “silenzio”. Magari ispirandosi ai “100 Video Portraits from Nebrodi” realizzati dal regista crotonese Gaetano Crivaro che ha filmato 100 abitanti delle montagne sicule, ferme in silenzio, davanti alla camera, nella loro ambientazione naturale. Riprendendo modalità di lavoro simili a quelle utilizzate dai primi fotografi con il foro stenopeico.

S.C: Sia il cinema che la televisione sono molto attenti a sfruttare i significati evocati dalle atmosfere silenziose; sovente però vengono utilizzati degli artifici tecnici, delle colonne sonore per sottolineare la drammaticità oppure per evocare la tensione narrativa di momenti associati il silenzio. Non credi che in questi casi si corra il rischio di amplificare alcune caratteristiche del silenzio – come per esempio nei film horror, dove la drammaticità o l’angoscia vengono portate all’esasperazione -, a scapito di una rappresentazione del silenzio più “a misura d’uomo”? 

Il silenzio di per sé è davvero poco telegenico e difficile da rappresentare. Se in ambito professionale si presentano per la messa in onda televisiva dei file con dei momenti di “silenzio” puro, gli addetti al controllo tecnico si preoccupano che non ci sia qualche errore. Si tende a riempire ogni momento di suono. In certi programmi addirittura i tagli fra un’inquadratura e l’altra vengono evidenziati da effetti sonori. Paradossalmente il silenzio viene reso in maniera molto più efficace con degli artifici tecnici piuttosto che registrando quello che viene considerato un “naturale” silenzio. Penso per esempio ai tappeti sonori usati nei quiz, basati sulla tensione e sul pathos, prima di risposte importanti. Il silenzio riflessivo del concorrente viene esaltato grazie ad un suono. Il cinema, soprattutto quello d’autore è leggermente più disposto a confrontarsi con il silenzio in quanto concetto (da Bergman a Kim Ki Duk ) ma molto meno a confrontarsi con il silenzio “acustico”. Spesso e volentieri vengono usati degli accenti sonori per evidenziare quello che potrebbe essere perfettamente silenzioso, note basse e continue, rumore del vento, lupi che ululano e cani che abbaiano in lontananza. Bisogna anche dire che il silenzio è rarissimo nella vita reale. Nessuno di noi ne ha fatto davvero esperienza. Probabilmente non esiste. Al di là delle considerazioni filosofiche in Ticino diventa difficile trovare un luogo dove registrare audio pulito, senza inquinamento fonico dato da autostrade, aeroporti e “Zeki Boy”. Sui set prima di dare il motore l’aiuto regista chiama il “silenzio”. “Nello spazio nessuno può sentirti urlare” era la logline di Alien. Forse il silenzio esiste fuori dall’atmosfera terrestre, nello spazio, ma anche lì, Kubrik ad un certo punto decide di rompere e amplificare il claustrofobico silenzio interstellare con i valzer di Strauss.  

 

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