Note: Questa è una trascrizione automatica rivista e divisa in capitoli da Vittoria De Feo (settembre 2022). Segnalaci eventuali errori e la tua disponibilità a portare avanti una revisione più approfondita del testo. I file audio delle puntate sono a disposizione qui. Il podcast Macerie è disponibile anche su Speaker, Apple Podcast, Spotify, Google podcast e sulle altre principali piattaforme. Sono disponibili un piano cronologico e una mappa dei principali luoghi citati.



Indice

Episodio 1: Ce la prendiamo noi        

  • Introduzione        
  • Contestualizzazione        
  • La festa al Tassino        
  • L’occupazione di Casa Cinzia        
  • La Manifestazione del 12 ottobre 1996        

Episodio 2: Dai Molini al Molino        

  • Introduzione        
  • L’occupazione dei Molini        
  • Le relazioni con l’esterno        
  • I rapporti all’interno        

Episodio 3: Lugano brucia        

  • Introduzione        
  • L’incendio ai Molini        
  • Il Maglio        

Episodio 4: Meglio al Maglio?        

  • Introduzione        
  • Politica e cultura al Maglio        
  • Il gruppo donne        
  • I cani del Molino        
  • La droga e lo spaccio        
  • L’Assemblea        

Episodio 5: Non potevamo esimerci dal farlo        

  • Introduzione        
  • Il movimento no global        
  • Il WEF di Davos        
  • Il G8 di Genova        

Episodio 6: L’alba della vergogna        

  • Introduzione        
  • Gli ecuadoriani        
  • La casa-laboratorio Inti        
  • I soldi del Molino        
  • Il dialogo tra autogestione e autorità        
  • Lo sgombero del Maglio        

Episodio 7: Un macello per Natale        

  • Introduzione        
  • Le manifestazioni dopo lo sgombero del Maglio        
  • L’irruzione al Consiglio comunale e l’ottenimento dell’ex-Macello        
  • L’entrata all’ex-Macello        
  • Il fantasma del Mattirolo        

Episodio 8: Lo strappo        

  • Introduzione        
  • Il primo periodo al Macello        
  • Lo spostamento a destra di Lugano e del Ticino        
  • I cambiamenti generazionali        
  • L’occupazione di Villa Selva da parte del gruppo anarchico Selva Squat        
  • La sensazione di smarrimento        

Episodio 9: La variante μ        

  • Introduzione        
  • Il cambiamento generazionale        
  • La capacità di rimettersi in gioco        
  • La fine del dialogo con il municipio di Lugano        
  • Movimenti nuovi al Molino        
  • La pandemia e il Molino        

Episodio 10: La costruzione del nemico        

  • Introduzione        
  • Le tensioni all’interno del Molino durante la pandemia        
  • La manifestazione in piazza Molino Nuovo del 30 ottobre 2020        
  • Il progetto Matrix        
  • La repressione della manifestazione dell’8 marzo        
  • I preparativi allo sgombero        

Episodio 11: Morel e l’autogestione ‘buona’        

  • Introduzione        
  • Prima del Morel        
  • L’inizio e la fine della collaborazione con il Molino      
  • Il Casotto       
  • Gli inizi del Morel       
  • L’inaugurazione dello spazio Morel e i problemi burocratici       
  • Autogestione buona e autogestione cattiva, ma Morel è autogestione?       

Episodio 12: Lo sgombero        

  • Introduzione        
  • Il corteo e la presa del Vanoni        
  • La demolizione del Macello        
  • Quando sono state chiamate le ruspe?        
  • Le reazioni di chi al Molino era legato        
  • Stampa e politica        
  • La reazione all’interno del Movimento e della popolazione        
  • La gestione dell’indagine di polizia        
  • E ora?       

 


Episodio 1: Ce la prendiamo noi

Introduzione

Il dodici ottobre del 1996, esattamente 25 anni fa, vengono occupati i Molini Bernasconi. “Come se fosse stato tolto un tappo a una parte consistente della società luganese, ticinese, come champagne e bollicine, esplodesse un colpo”. È l’inizio di una storia che cambierà per sempre la città, il Cantone e la vita di molte persone, compresa la mia. “Che è quello che sono oggi. Sicuramente c’è dentro l’esperienza del Molino”. “Cioè, noi abbiamo veramente il Molino nelle vene, cioè, ci abbiamo messo vent’anni della nostra vita, sempre”.

Era da diversi anni ormai che seguivo le attività del Molino, un po’ da lontano, con affetto e distacco. Le energie, il tempo a disposizione erano diminuiti e forse anche la speranza di riuscire davvero ad intervenire politicamente su questa società. Un mix di pigrizia e disillusione. “Da quando c’è stato lo sgombero, molta gente si è unita e c’era molto questa sensazione di rabbia, ma anche proprio voglia di andare avanti, di combattere comunque. Mi sono sentita proprio quasi rinascere in quel in quel momento di lotta”.

Quando parlo del Molino con le persone che non hanno fatto parte di questa esperienza, faccio sempre una grande fatica a spiegarmi, a raccontare di che cosa si tratta e come funziona e perché può valere la pena dedicarci tante energie. Ci sono tante idee preconcette. Cosa sentite dire. Dubbi. Il Molino, la sua storia, l’autogestione e le sue dinamiche di funzionamento rimangono avvolte in una grande nebbia. “Autogestione non vuol dire assenza di regole, vuol dire delle regole che si decidono collettivamente, all’interno, in questo caso di uno spazio fisico”.

È chiaro, poiché non è possibile raccontare una storia univoca di un’esperienza così multiforme e sfaccettata come quella dell’autogestione in Ticino. Quindi, questa è solo una delle possibili storie che si sarebbero potute raccontare. Un viaggio attraverso la complessità di esperienze e movimenti che vivono di discussioni intense, di valori forti, di punti di vista differenti e anche di contraddizioni. Non ne usciremo indenni. Ci apprestiamo ad attraversare un paesaggio fatto di fuoco, sgomberi e macerie.

Alcune note di metodo. Si è proposto di fare un podcast per raccontare tutta la storia dell’autogestione. L’Assemblea è informata di questo progetto, un piccolo gruppo di lavoro autonomo ha deciso di occuparsene. Chi parla lo fa a titolo personale, non è una presa di posizione dell’Assemblea o del Molino. Questa è una storia collettiva. I nomi non sono così importanti. Si può scegliere di restare anonimi e ci sono chiaramente 1000 motivi per volerlo fare. Non è un lavoro giornalistico, ma una narrazione collettiva e appassionata.

Questo è il primo episodio di Macerie. Si intitola ‘Se non ce lo date, ce lo prendiamo noi’.

Contestualizzazione

Il 1996 è stato un anno strano. Lugano non era ancora la Grande Lugano e, pur essendo la città più popolosa del Cantone più a sud della Svizzera, contava soltanto poco più di 25.000 abitanti.

Grazie al segreto bancario, la città negli anni si era arricchita con un flusso continuo di capitali di dubbia provenienza. Aveva rinnegato il proprio passato rurale. Il sindaco architetto liberale Giorgio Giudici si apprestava a governare la città per il 12º anno consecutivo, guadagnandosi così il soprannome di Re Giorgio.

Fidel Castro incontrava il Papa in Vaticano e la sonda spaziale Pathfinder veniva lanciata verso Marte. Io avevo dodici anni e frequentavo gli scout cattolici con sede nel seminterrato di una chiesa, due strade accanto ai Molini Bernasconi. Nelle radio spopolava una canzone che ben descrive il clima culturale dell’epoca, la ‘Macarena’.

“C’era veramente poco, c’erano soltanto le discoteche. Già allora c’erano quelle di Gordola e mi sembra quelle di Lugano”. “Il Ticino era un posto dove c’era il foce, dove a volte c’erano dei concerti interessanti che erano proposti da GAS, o se no c’era la cultura mainstream. Il Padiglione del Conza diventava un’enorme discoteca dove la gente andava e ballava”. “Da un punto di vista istituzionale era deleterio, succedeva solo quello che facevano succede loro. Erano gli anni in cui i bar chiudevano a mezzanotte. E quindi sul cosa si faceva dopo era o andare al parco Tassino o al San Michele. C’era chi prendeva la macchina e andava a Campione d’Italia”. “Mancavano luoghi di socialità e di cultura. Particolarmente, io ricordo in ambito musicale. Ma poi era, ecco, generalizzato in tutto”. “Io in particolar modo, per esempio, all’inizio degli anni ‘90 giravo ai bar Portici a Lugano, che era, diciamo, un luogo di ritrovo giovanile e dove, tra grandi bicchierate e divertimenti, comunque, c’era sempre associata una qualche discussione che era relativa all’offerta culturale che Lugano non presentava. Quindi diciamo che eravamo un po’, da quel punto di vista, nello stato un po’ embrionale di una formazione politica”.

Per arrivare all’occupazione del 12 ottobre 1996, dobbiamo però prendere un po’ di rincorsa, fare un passo indietro. Le rivendicazioni per un centro autonomo in Ticino risalgono almeno agli anni ‘60. Cerchiamo però di capire da dove si potrebbe iniziare questo racconto, forse da un fatto avvenuto a migliaia di chilometri di distanza: 1º gennaio 1994, Selva Lacandona, Messico. “Il 1º gennaio 1994 ci fu la rivoluzione zapatista, insomma, che prese piede. Nello zapatismo erano contenuti tutti quegli elementi, al netto di quello che noi stavamo riflettendo su l’offerta culturale che Lugano non proponeva. C’erano delle connotazioni degli elementi di analisi socio-politica all’interno dello zapatismo che potevano essere proiettate anche nei contesti più locali. Alcune persone andarono in Chiapas e ritornarono con questo tipo di esperienza e questo ebbe modo di collettivizzazione queste esperienze creando un gruppo politico.

“Poi nel ‘95 son partito per il Messico con sette amici e, un po’ casualmente, siamo arrivati a San Cristóbal. Abbiamo preso contatto con l’ufficio che si occupava di osservatori civili e siamo partiti per le comunità zapatiste per verificare questi accordi di pace in qualità di osservatori civili internazionali. Andando nelle comunità zapatiste abbiamo capito l’importanza dell’autogestione, del funzionamento assembleare, l’importanza dell’ascolto e delle decisioni condivise all’interno delle comunità zapatiste. Il fatto che non si votasse all’interno di queste comunità. Il fatto che difendevano l’autonomia proponendo un modello completamente diverso da quello dominante”.

Qualcuno ha posto la domanda, ‘ma cosa facciamo una volta tornati?’ e qualcuno ha risposto ‘Beh, sarebbe bello fare un centro sociale, sia perché rimaniamo nella forma dell’autogestione, come anche intesa dagli zapatisti, sia perché potrebbe essere uno spazio fisico dove provare a sviluppare un altro tipo di micro-società all’interno di uno spazio liberato’.

“Noi eravamo un gruppo che ci trovavamo nello scantinato di un palazzo a Breganzona. Così, ingenuamente, romanticamente volevamo cambiare il mondo e mi ricordo che ci dicevamo ‘perché in Africa, piuttosto che in molti paesi del mondo, ci sono persone che muoiono di fame?’. E ci rendevamo conto che il sistema non funzionava. Quindi ecco con queste domande noi ci trovavamo lì e cercavamo di fare delle iniziative che portassero a un cambiamento del mondo. Poi ci sono stati alcuni ragazzi che sono stati in Chiapas e ci hanno portato questo modus operandi zapatista. Questa idea ci piaceva e poi abbiamo iniziato a informarci su quello che era il movimento zapatista e abbiamo iniziato a fare un gruppo zapatista. In contemporanea, cercavamo di prendere quegli aspetti che ci corrispondevano, che pensavamo potessero funzionare anche nel nostro gruppo, e di portarle avanti qua in Ticino”.

“E lì si è formato il collettivo zapatista, che principalmente aveva l’idea della solidarietà col movimento zapatista. Ma, come dicevano spesso gli zapatisti, voi dovete combattere il neoliberismo nel vostro territorio, dovete creare qualcosa lì e da lì il passo successivo, tutti insieme questo gruppetto che si ritrovava in uno scantinato di un palazzo popolare a Breganzona. L’idea di rivendicare un centro sociale autogestito si farà sempre più consistente finché diventa la nostra linea guida”. “Tiene in considerazione che, mentre c’era un collettivo zapatista, c’era anche il gruppo per l’autogestione socio culturale dove io feci parte per un paio d’anni. Però ci siamo detti come collettivo zapatista, se vogliamo portare avanti delle iniziative politiche e delle iniziative culturali, abbiamo bisogno di una struttura e questo passo è stato fondamentale perché abbiamo anteposto la lotta politica sul fatto di avere una struttura. Questa posizione, è una posizione che io ritengo attuale perché, senza una base di un edificio dove poter costruire qualcosa, è difficile, insomma. Quindi ci siamo lanciati in quella direzione, abbiamo cambiato il target. Ci siamo detti, adesso, ci proviamo a impegnare per avere una struttura autogestita, non in Ticino, a Lugano: da qui la creazione di Realtà Antagonista. Realtà Antagonista ha accomunato più gruppi sociali e culturali che erano già presenti sul territorio. Noi abbiamo portato un nuovo tipo di lotta, diversa rispetto a quello che faceva GAS, perché GAS erano tanti anni che provava a dialogare con il municipio per ottenere il famoso terzo piano dell’ex-Termica di Lugano con una petizione. Ma naturalmente ci si è scontrato con un muro di gomma”.

La ex-Termica di Lugano è un grande edificio di proprietà pubblica, inaugurato nel 1919 come centralina per la produzione di elettricità. È stata in funzione fino al 1966, quando fu dismessa. Rimasta vuota per molti anni, era stata uno dei tanti luoghi rivendicati come spazio socio-culturale. Nel 1992 vennero raccolte oltre 4000 firme per richiederne l’uso. La città preferì invece adibirlo a cinema multisala. “Sia GAS che Robin Hood erano convinti che solo attraverso il dialogo si poteva ottenere uno spazio autogestito. Realtà Antagonista fin dal suo primo comunicato aveva detto che i mezzi devono essere altri per arrivare al fine. In altre parole, dicevamo, l’occupazione è l’unico modo per arrivare a un centro sociale autogestito in Ticino, a Lugano”. “Il dialogo era trent’anni che esisteva con il municipio e di frutti non ce n’erano. E allora noi avevamo detto, entro sei mesi noi occupiamo e prendiamo un posto”.

La festa al Tassino

Da alcuni anni si teneva al Tassino, un parco pubblico nei dintorni della stazione ferroviaria di Lugano, una festa spontanea. L’appuntamento era ormai ricorrente: in occasione della prima luna piena di maggio, centinaia di persone si davano appuntamento per passare una nottata insieme. La festa, nonostante qualche lamentela del vicinato, fino a quel momento era sempre stata tollerata dalle autorità.

“Quella sera, era tra l’altro una bellissima sera, meteorologicamente parlando. Era bello, caldo, non pioveva, c’erano un sacco di persone e non c’era stata nessuna avvisaglia rispetto al fatto che la polizia pensasse a reprimere. Però, c’è da dire una cosa: era un anno già caldo. Un certo tipo di tensione era già presente tra le autorità e i gruppi antagonisti che rivendicavano la struttura autogestita. Quindi qualcosa c’era già, un po’ in giro”. “Noi eravamo lì che suonavano la chitarra, che parlavamo, comunque era un momento, insomma, dei ragazzi su un prato che si divertono. A un certo punto sono arrivati i poliziotti in tenuta antisommossa. E io conservo ancora un proiettile di gomma. Poi, sono arrivati anche i lacrimogeni. Io allora avevo, penso, forse 16 o 18 anni, non ricordo. Ma ricordo che ero scioccata perché davvero io non capivo il motivo di un, cioè, noi siamo dei ragazzi qua che guardano il cielo, le stelle, parlavamo, suonava la chitarra, c’era tutto un ambiente molto, molto pacifico, bello. Vedere i poliziotti in tenuta antisommossa, era proprio…”.

“La guerra. Erano in 500, i ragazzi, e i poliziotti minacciati di botte a bottigliate e sassi. Abbiamo visto dalla finestra i ragazzi picchiati, mezzi drogati, tutti. Picchiavano i poliziotti. I poliziotti hanno avuto una grandissima pazienza, fino alle tre della mattina”. “Mi sono chiuso in casa, avevo paura a venir fuori. A un certo momento erano in tanti e…”.

“Ci siamo confrontati immediatamente con la polizia. Ci sono stati… Sì, è vero, inutile negarlo, lanci di bottiglie. C’è stata molta violenza da parte della polizia. Mi ricordo un poliziotto che prese la chitarra e la ruppe a terra. Manganellate proprio gratuite. E questo, naturalmente, faceva in modo che ci fosse proprio una contro-reazione della gente. Insomma, ci furono molte bottigliate, insomma, andranno avanti tutta la notte, riusciranno poi a farci uscire dal parco del Tassino, ma diciamo gli scontri, se così possiamo chiamarli, andarono avanti poi nella zona Montarina dove bruciavano dei cassonetti, si mettevano in mezzo alla strada per evitare che arrivavano le camionette della polizia o auto e via dicendo. E ci fu molta gente che si fece male, insomma, quella sera. Questo poi portò naturalmente a un grosso dibattito all’interno dell’opinione pubblica. Lì abbiamo capito che era inutile dialogare con il municipio. Da quel momento via, praticamente abbiamo pensato l’organizzazione dell’occupazione”.

“E secondo me lì c’è stato un momento di punto di inflessione, ma anche di presa di coscienza da parte dei gruppi involucrati in questo che hanno detto ‘possiamo osare di più, cioè siamo veramente in tanti e quindi possiamo fare in modo di fare un passo ulteriore’”.

“Noi portammo fin da subito, fin dalla creazione di Realtà Antagonista, un livello di scontro più elevato, no? Da qui la famosa occupazione del Consiglio comunale, per esempio, che era una delle azioni che facemmo e che creò molto, molto, molto dibattito, insomma”.

“Ci trovavamo sempre rispetto al fatto che il municipio era un muro di gomma, non voleva incontrarci. Per noi fu banale, in realtà, va bene, se non vogliono incontrarci andiamo noi da loro. Fu in realtà molto semplice, nel senso che organizzammo l’azione, preparammo un documento da leggere. E così facemmo, nel senso che quando arrivammo in municipio sapevamo già dove dovevamo entrare. Abbiamo spalancato le porte e la scena era piuttosto interessante, perché naturalmente ci fu anche un certo spavento, no? Perché sospendemmo la sessione del Consiglio comunale, insomma”.

“Hakim Bey aveva scritto il libro ‘TAZ – Temporary Autonomous Zone’, che appunto delineava queste zone temporaneamente autonome come parte in fondo di quei luoghi, come potevano essere le comunità zapatiste che si mettono in relazione tra di loro per creare una grande rete di resistenza e di sperimentazione a livello globale. Quest’idea del centro sociale, creare una zona libera dall’influenza dello Stato, ma concepita sulla base di principi che regolano le relazioni e le attività che si possono realizzare liberamente all’interno di un luogo che è slegato dalle logiche del sistema”. “C’è voluto qualche mese di preparazione per scegliere, per individuare il posto, per organizzarsi. A sorpresa, a Bellinzona occupano una casa, Casa Cinzia, persone con cui noi non avevamo mai avuto contatti, neanche sapevamo che esistevano, e loro hanno fatto nascere il primo centro sociale autogestito occupato con una settimana d’anticipo su di noi, a Bellinzona”.

L’occupazione di Casa Cinzia

Sabato 5 ottobre 1996, infatti, il Gruppo Giovani Pastorizzati occupò una villetta abbandonata nel vicolo Von Mentlen, a Bellinzona. Destinata alla demolizione, Casa Cinzia in pochi giorni diventa un centro autogestito che richiama centinaia di persone da tutto il Cantone. Sulla facciata uno striscione: ‘Casa occupata, Casa incantata’. “Casa incantata, anche perché siamo rimasti molto incantati dalla reazione della polizia e del sindaco, non ce l’aspettavamo veramente. Siamo restati proprio sospesi in aria perché eravamo qua dopo le pulizie ad aspettare la polizia e avevamo pensato ‘ci mettiamo sdraiati per terra, che ci portano via di peso’. Invece no, pacificamente, siamo rimasti tutti molto sorpresi e incantati”. “Casa Cinzia era vicino a Piazza Indipendenza, era una casa che era rimasta vuota per anni e che poi era stata occupata da un gruppo di persone del bellinzonese. Quindi all’inizio non è che c’era un movimento e che sapevi che stava rivendicando, così.. Ci si è svegliati un mattino ed era stata occupata Casa Cinzia. Io delle amiche siamo andate a vedere, si è dovuto pulire, si è dovuto riordinare, mettere a posto tutto il giardino, quindi si faceva quello in un primo momento. Poi lì avevano fatto un bel atelier per fare attività creative. E poi soprattutto c’erano sempre delle persone, quindi anche chiacchieravi molto e scoprirvi un po’ delle persone che avevano viaggiato. Era un’apertura sul mondo molto più ampia che non quello che riserva frequentare solo il liceo, ecco. E il Comune, beh, non era d’accordo, però era spiazzato. Quindi comunque Casa Cinzia è andata avanti per dei mesi, finché è arrivato proprio l’ordine di sgombero. Gli occupanti sono usciti e sono andati a occupare un altro stabile, sempre in centro a Bellinzona, e la stessa notte è stata abbattuta con le ruspe, Casa Cinzia. Quindi, da quel lato lì, è proprio quello che è successo al Molino adesso, no? Una volta usciti l’hanno abbattuta e nello stesso periodo una serie di stabili sfitti, vuoti a Bellinzona gli abbattevano il tetto per essere sicuri che non venissero occupati”.

La Manifestazione del 12 ottobre 1996

Intanto a Lugano viene lanciata ufficialmente da Realtà Antagonista una manifestazione per il 12 ottobre 1996. La città in quei giorni si appresta ad ospitare uno degli eventi più importanti e mediatizzati del decennio, i Campionati del mondo di ciclismo su strada, che avrebbero richiamato migliaia di persone e le telecamere delle televisioni di tutto il mondo.

“Una delle difficoltà maggiori era anche capire quanta gente poi in realtà sostenesse concretamente l’autogestione. Guardandosi in giro a Lugano, la Lugano, come dire, che ti guardi in giro, per capirci, è come i ragazzi, tutti ben vestiti, che sono lì a fare l’aperitivo al Gabbani. Difficilmente credevi che a Lugano ci fossero dei giovani con altri valori o altri principi, critici nei confronti della società. Sembravano tutti omologati, ecco”.

“Realtà Antagonista, con questa manifestazione, vuole sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema degli spazi autogestiti, ma in particolare torna all’attacco per rivendicare l’utilizzo immediato a questo scopo della ex-Termica”.

È stata veramente una cosa semplice. Mi ricordo che il carretto del generatore e impianto audio, non c’erano neanche le casse, ci hanno dato delle trombe, quelle sulle macchine da mercato. Il carretto era il carretto del latte di mia nonna, vino preso da un amico di un amico Corteglia. Ed è stata una manifestazione molto breve, da piazza Indipendenza a Lugano fino a Viganello. Adesso, col senno di poi, molto basica”.

“Quando siamo arrivati poi davanti ai Molini di Viganello, abbiamo semplicemente sganciato le catene che chiudevano il cancello e avevamo dietro di noi tutta la polizia. Diciamo, non la polizia che vediamo adesso, insomma, perché avevamo il classico trio: Scacchi, Longhi e Mastrosimone, che erano i poliziotti di allora, insomma, che ci seguivano. Quando noi entrammo dentro ai Molini di Viganello, loro si fermarono dall’altra parte della strada. Non capivamo questa cosa. Tra l’altro con loro c’era un certo dialogo. Noi andammo a chiedere e loro ci dissero ‘Non possiamo intervenire perché siete sul suolo di Viganello. Per cui, noi siamo la polizia di Lugano, oltre a questo non possiamo fare niente’. Noi non lo sapevamo. Non avevamo minimamente calcolato questo aspetto”. “Di quel momento io ho proprio l’immagine della polizia che si ferma e mi ricordo il volto del Teo che rideva”.

I Mulini Bernasconi erano uno dei pochi grandi stabili industriali ancora presenti nel tessuto cittadino, ormai in disuso da parecchi anni. Grandi spazi industriali pensati per la lavorazione di cereali e farine, si trovavano nel comune di Viganello, a pochi chilometri dal centro di Lugano, in un quartiere popolare e densamente abitato.

“In fase iniziale non eravamo organizzati, non avevamo una struttura di bar, non avevamo una struttura per far musica, era molto, molto basica, ecco”. “Visti da fuori, i Molini sembravano bene. Quando siamo entrati, un posto migliore non si poteva, non si poteva desiderare”. “Abbiamo invaso completamente lo stabile, abbiamo aperto tutte le finestre, abbiamo fatto il nostro giro e via dicendo. Abbiamo organizzato veramente una grandissima festa dove hanno partecipato veramente centinaia e centinaia di persone”. “Poi abbiamo subito improvvisato qualcosa da mangiare, abbiamo fatto un piccolo baretto, c’era chi aveva portato dei pennelli e aveva iniziato a dipingere. Era tutta una scoperta”. “Ricordo e devo dire che non apprezzavo particolarmente, c’era un’invasione di bongo che andavano avanti fino a notte tarda. Abbiamo scoperto che in verità, appunto, non erano tutti omologati, ma c’era una buona fetta della popolazione che non si riconosceva nell’omologazione, nel consumismo, nell’essere semplicemente spettatori, ma volevano essere attori della loro vita e della vita sociale, ecco”.

“Un gruppo di giovani ha occupato un edificio a Viganello e l’occupazione è tuttora in corso. La polizia di Lugano è ancora allo stabile, ma non è per il momento intervenuta (reportage)”.

“La notizia l’hanno data i media e, rapidamente, la gente è cominciata ad arrivare. Ricordo che fin dalle prime sere erano migliaia le persone che erano presenti. Questo a noi ci pose un primo problema, una prima decisione da prendere in Assemblea: ‘Cosa facciamo?’. Il lunedì ci fu la prima grossa Assemblea alla quale parteciparono 200-300 persone”. “E quello spazio doveva essere una cosa di una sera e via. Però non ce l’abbiamo fatta. Siamo rimasti lì. Abbiamo portato delle amache, c’è chi dormiva nel sacco a pelo. Si è rimasti lì per parecchio tempo”. “Ci fu comunque un dibattito molto energico all’interno dell’Assemblea su chi diceva ‘No, abbiamo fatto la nostra azione dimostrativa, lasciamo’ e chi invece sosteneva che avremmo dovuto rimanere. E questo fu l’inizio dell’esperienza”.

“Era stato così bello assaggiare quel pezzettino di libertà. Così bello essere attori e propositivi. Abbiamo fatto sostanzialmente un’Assemblea, ‘Non è venuto nessuno a buttarci fuori. Perché dovremmo andarcene?’”. “Tutti i giorni c’era qualcosa, gruppo cucina, gruppo bar, la domenica c’era un coro di canti anarchici, cioè fitto fitto. Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì, sabato e domenica c’era un gruppo o qualcuno che si riuniva e faceva qualcosa. Venerdì e sabato, poi c’era l’apoteosi di 500, 600, 700, forse anche 1000 persone. Però era una cosa veramente inaspettata. Ci ha riempito la vita subito”. “C’era il Barabba che era questo grande bar di birraioli. E poi c’era, bellissimo, il Bla Bla, che era uno spazio creato prevalentemente da questi ragazzi che facevano parte del gruppo GAS. Poi loro mettevano tutta della musica molto ricercata. In quel periodo è interessante perché iniziava a venire fuori il movimento anche dei ravers, quindi c’era anche la techno, si iniziava a fare musica anche in altro modo. Poi quando si saliva su di sopra si arrivava in uno spazio che era dedicato alle mostre. Poi, in più in su si era costruita la sala mescite”. “Mense popolari, librerie, info shop, zone teatro, zona concerti, Barabba”. “Io penso che venisse gente proprio da tutto il Ticino, perché erano curiosi, perché poi era magico quel luogo. E per me quello che secondo me è importante è che si trattava non del Molino, ma dei Molini, perché c’erano diverse realtà che lo componevano”. “Non c’era un lucchetto al centro sociale, non c’era una porta che veniva chiusa a chiave, era aperto 24 ore su 24 e chiunque poteva entrare in qualunque momento lì dentro, perché era un centro sociale aperto sempre a tutti”.

“Visto l’atteggiamento di chiusura al dialogo, visto che eravamo illegali, che assaltavano la proprietà privata e via dicendo, ci aspettavamo da un momento all’altro la possibilità di uno sgombero. Da parte nostra eravamo più che convinti a resistere nei modi classici degli stabili occupati, rimanendo sui tetti e costruendo barricate, lanciando pietre e lanciando quel che c’era da lanciare. Questa sarebbe stata la difesa del posto. Questo era per noi chiaro che non saremmo usciti con un semplice invito passivamente. Noi eravamo abbastanza determinati che avremmo pagato il prezzo di quello che bisogna pagare per resistere su questo spazio”.

Episodio 2: Dai Molini al Molino

Introduzione

“Quelle prime settimane, quei primi mesi erano veramente di un’esuberanza e di una potenza incredibile. Tutti volevano vederlo, tutti volevano partecipare ed era veramente, ancora rifacendomi ad Hakim Bey, la rivoluzione: Quando la fai, subito dopo, è già tradita perché già si innesca il potere, già si innescano dei meccanismi, delle regole e delle cose che rischiano già di trasformarla. Il momento più bello, il momento più dinamico, il momento più sorprendente è l’insurrezione”.

Sono qui a Viganello, proprio in via Molinazzo, dove c’erano i Molini Bernasconi. Oggi c’è un grande centro commerciale, la Coop, i parcheggi, un parco giochi dei carrelli. Io ho anche abitato alcuni anni in una vecchia casa proprio a due strade da qua.

Poi ci hanno sfrattato e la casa è stata demolita per lasciar posto a un appartamento di lusso. E questo è stato un po’ il destino di buona parte del tessuto storico di Viganello e di Lugano. Non ci sono praticamente più tracce del passato industriale della zona, se non nella toponomastica, via Molinazzo, appunto. E anche a cercare nemmeno del centro sociale si trovano tracce, niente proprio, nemmeno un graffito, una scritta, niente, tutto cancellato.

Vorrei cercare di capire come poteva essere questo quartiere 25 anni fa, il giorno dell’occupazione e per questo voglio parlarne con Marilena Antonioli Ranzi. Classe 1947, è cresciuta a Viganello proprio in una delle case qui attorno. “Abitavo vicino al Molino quando non c’erano i Molinari, quando c’erano solo i Molini Bernasconi, era un posto industriale, c’erano gli uffici, c’era il silos, c’erano tutte le attività, tutti i garage. Delle volte era anche un po’ rumoroso alla sera. Però era un’attività consolidata nel quartiere, per cui si accettava e si accettavano questi rumori. Perché i Molini Bernasconi fornivano la farina, credo, a tutto il Canton Ticino. Poco meno, insomma. Hanno chiuso per, se mi ricordo bene, per fallimento. E poi il Molini è rimasto così incustodito, diciamo. Non c’era nessuno, è rimasto chiuso prima dell’occupazione alcuni anni, che dopo è stato venduto. Quando i Molinari li hanno occupati, era di una società della Svizzera tedesca. Una società di speculazione, se non mi sbaglio, era una società che aveva a che fare con l’elettricità, che aveva già fatto domanda di demolizione. Poi, appunto, improvvisamente nel ‘96 arriva l’occupazione.

L’occupazione dei Molini

Quando, il 12 ottobre 1996, dopo trent’anni di richieste infruttuose, sono stati occupati i Molini Bernasconi, Marilena Antonioli-Ranzi era municipale a Viganello. Il piccolo comune si è trovato improvvisamente a dover gestire un affaire di portata cantonale.

“Il martedì dopo questa occupazione, eravamo in seduta alla Muggina, bussano alla porta ed erano tre ragazzi che sono venuti e ci hanno comunicato di aver occupato i Molini Bernasconi. Volevano l’acqua, volevano la luce. Insomma, una serie di richieste, al che abbiamo detto ‘Beh, ragazzi, calma e gesso e ci vediamo. Arrivederci’. Devo dire, c’è stata anche grande comprensione da parte della proprietà perché avrebbero potuto chiederci un intervento massiccio, cosa che non hanno fatto. Sai, loro erano in fondo in Svizzera interna. Aspettavano di demolire per costruire qualche cosa e quindi credo che alla fine non è che gli importasse più di tanto se c’erano lì, se non c’erano lì i Molinari. Ecco, la mia impressione era quella. Per alcuni mesi ci trovavamo su a mezzogiorno con questi ragazzi per vedere cosa facevano, se c’erano reclamazioni, se non c’erano reclamazioni, insomma, non erano sempre quelli. E a dire la verità, non sapevamo neanche bene come si chiamassero, perché un giorno ne arrivavano due, un giorno ne arrivavano tre. Ecco, però c’era questo scambio, questo colloquio. E questo era anche positivo. Forse è anche questo che ha portato a non andar giù con le ruspe a sgombrare, ecco.

Questo è il 2° episodio di Macerie: ‘Dai Molini al Molino’.

“Se dovessi dire l’esperienza vitale che più mi ha dato in tutta la mia vita e quella che secondo me ha più valore entrando nel mio curriculum, sono le esperienze di autogestione. Lì ti rendi conto che, nonostante i ritmi di lavoro fossero allucinanti, lo stress, le responsabilità, le cose da fare erano veramente tantissime, le ore di sonno pochissime. E io non ho un ricordo di pesantezza fisica o di noia. Ho un ricordo proprio di entusiasmo, poi cioè scazzi o rotture di scatole, cioè quando tu sei all’interno di un contesto societario in cui la famiglia, la scuola, il posto di lavoro ti costringono e ti cazziano, quando tu, in un momento di libertà, c’è un’esplosione. I Molini Bernasconi erano un costante costruire e distruggere, ricostruire, ridistruggere… Anche dinamiche che da un certo punto di vista possono sembrare deleterie, cioè l’autogestione ti mette a confronto con la libertà e la libertà, ha bisogno di tanta responsabilità. L’autonomia è qualcosa che va costruita, guadagnata tanto da un punto di vista individuale quanto da un punto di vista collettivo”.

“Ad un certo punto, chiaramente ci siamo resi conto che volevamo metterci un nome a questo CSOA, che andava avanti già da forse una settimana. E la proprietaria si chiama Electrowatt e quindi una delle possibilità, una delle prime che erano emerse era quella di Autonomenwatt, che poteva essere il nome dei Molini o del Molino”.

“Quando si dice centro sociale si deve proprio pensare al termine che si usa. Cioè, l’idea è che un posto di questo genere potesse interagire con ciò che necessitava la popolazione”. “In una prima fase il vicinato ci accolse alla grande. Ci volevano un gran bene, hanno cominciato a portarci mobili e tutto quello che ci serviva”. “Mettiamola così, molti riuscirono anche a svuotare le proprie cantine per poterci offrire dell’arredamento di seconda mano. Fin da subito noi ci siamo messi nella condizione di poter contro-offrire situazioni di attività culturali ma anche di mensa popolare. Quindi si interagiva tantissimo. Io penso che, in tutta l’esperienza del Molino, quei nove mesi che abbiamo passato ai Mulini Viganello rappresentano l’idea più vicina al senso di cosa debba essere un luogo”. “Questi, questi ragazzi avevano pulito tutto il Molino, facevano delle conferenze ecc. Ci invitavano. E noi parecchie volte, come municipio, in rappresentanza del municipio, siamo andati. C’erano dei ragazzi che non erano contenti di vederci. Mi ricordo uno voleva buttarmi giù dalle scale un giorno, perché c’erano tutte le scale. C’erano delle persone anziane confinanti, quali andavo lì a pranzo, erano molto contenti e c’erano altri confinanti non contenti. Loro facevano anche tante feste e lì c’era un problema”. “L’idea che secondo me era sempre, o almeno a spinto me, era quella del territorio liberato del territorio autonomo. Però, il pezzo autonomo è comunque circondato dal sistema. Non è che ‘bom, adesso siamo a posto’. Quindi qua e là abbiamo sempre, senza farci imporre niente, accettato di dialogare o almeno far finta di dialogare con le autorità, con la politica, con quel sistema. A Viganello siamo pure forse arrivati a invitare il vescovo. Avevamo dei livelli di facciamo il cazzo che vogliamo, ma non ci neghiamo nessuno. Siamo stati al Comitato Cantonale PLR, Comitato Cantonale PPD. Non era importante, per noi non erano nessuno, però erano utili lì al nostro fine”.

Le relazioni con l’esterno

Non so se lo ritrovo, però a un certo punto c’era un articolo del Blick… “Era un giorno in cui non uscivano i giornali, l’unico giornale che usciva in tutta la Svizzera era il Blick. Quindi, la sera prima, ai Molini c’era stato uno spettacolo di body painting. L’attore dipingeva il corpo dell’attrice e alla fine dello spettacolo, l’attrice era nuda, l’attrice aveva due piercings alle grandi labbra della vulva, e alla fine della performance l’attore ha attaccato una doppia catenella con un orsacchiotto. Il giorno dopo ci alziamo in due, andiamo prendere la colazione al distributore che c’era a fianco ai Molini, e l’unico giornale che c’era era il Blick, che in copertina aveva la foto della tipa censurata con su scritto ‘Pornoshow in Jugendzentrum’. E lì abbiamo pensato ‘Mah, anche questo ci tocca’. Quindi, evidentemente, visto che non c’era nient’altro, tutta la stampa è venuta a rompere i maroni. Per noi, l’abbiamo detto al regista dello spettacolo che non si è immutato, si è alzato, è andato davanti a tutte le telecamere e alle radio e ha risposto con una poesia, che se non mi sbaglio era sul significato dell’arte”.

Non c’è niente di pornografico. L’immagine che hanno pubblicato è l’esempio di come si può travisare completamente un messaggio.

“Però il nostro intento era sempre stato quello di cercare di coinvolgere, abbiamo cercato, abbiamo invitato, abbiamo fatto le domeniche con il risotto e così, e ne veniva anche di gente”. “Facevamo delle bancarelle, facevamo dei momenti dove invitavano proprio la popolazione a venire, a mangiare insieme. Cercavamo di fare… Però chiaramente eravamo visti un po’ come i diversi. Voglio dire, non so, noi arredavamo magari i vestiti in un modo che non era in giacca e cravatta. Inoltre, eravamo un po’ strani, chi aveva i capelli colorati, i piercing, anche i tatuaggi. Eravamo un po’ strani. Abbiamo comunque occupato uno spazio, che non è una cosa che normalmente si fa”.

Occupare, occupazione, prendersi uno spazio che legalmente non ci appartiene. Sono sempre questioni che fanno discutere. “Il fatto che fosse una proprietà privata non è stato un problema in qualche modo, etico anche”. “No, per niente. Per noi valeva il concetto che una struttura vuota rappresentasse una possibilità di poterne usufruire per poter offrire dei servizi anche al quartiere”. “Gli stabili dell’ex-Molino Bernasconi erano un ottimo esempio di stabile fatiscente, lasciato vuoto, con l’unica ottica di specularci poi in futuro”. “La legalità, anche questo sappiamo che è sempre un rapporto di forze. Per dire, la stessa legge evolve col tempo. Quello che era illegale vent’anni prima può diventare legale dopo, proprio perché la società evolve e giudica quella situazione. La legge è la sintesi di un rapporto di forza, di una visione su una determinata problematica. Quindi, quanto tale, va anche relativizza. Non è un valore assoluto, intoccabile. Se non ci fossero state persone illegali, la società non sarebbe mai evoluta. Gli schiavi non si sarebbero mai liberati dalla schiavitù, le donne non avrebbero mai conquistato un diritto di voto, perché anche alla base ci sono stati movimenti illegali. Dopodiché, vorrei anche precisare che però autogestione non vuol dire assenza di regole, vuol dire delle regole che si decidono collettivamente all’interno di uno spazio fisico”.

“Noi aspettiamo le ruspe ogni giorno perché noi siamo stufi. Io abito proprio di fronte all’entrata di questi Molini. Ho due figlie che non dormono più di notte. Vengono disturbate sia all’una, alle due e alle tre e le quattro de mattino. Tante volte, va fino anche alle sei. Veramente non si dorme più”.

“Posso anche immaginare che comunque a livello di rumore sicuramente ne facevamo perché concerti, non era, era un vecchio edificio, non era insonorizzato e sicuramente c’era casino”. “È chiaro che il Molino, situato all’interno di un quartiere residenziale e frequentato da 1500 persone al venerdì e altrettante al sabato, con musica, tre sale concerti. Era abbastanza scontato che non fossimo apprezzati da tutto il quartiere. Anche quelli più ben disposti nei nostri confronti, alla fine non ne potevano più perché non potevano dormire. Noi stessi ci saremmo lamentati se eravamo vicini al Molino”.

“Poi il traffico, avanti e indietro, rutti, bestemmie e di tutti, bottiglie di birra lanciate contro la casa, sassi lanciati contro la casa. Chiamando la polizia, non succede niente perché la polizia…”. “Penso che si possa anche pensare di fare autocritica. Stiamo parlando di serate al sabato sera di 2000-2500 persone. Assolutamente. Il luogo era enorme. Eravamo anche in tanti a gestirlo c’è da dire, che poi l’occupazione fece aggregare ancora più gente all’interno del Movimento, quindi si creò veramente un circuito eccezionale, anche in termini numerici”.

“Non è un centro di drogati, ma gira anche quello. E questo è un attirare gente in un quartiere tranquillo anche di quel tipo lì. Mettiamo le carte in chiaro. Diciamolo, diciamolo una benedetta volta che è così”.

“Si erano presentati anche gruppi neonazisti e fascisti. In ogni occasione che si sono presentati, han sempre preso un sacco di legnate, in fin della fiera”. “I furti negli appartamenti, i furti nelle cantine, ciclomotori e macchine sono aumentati enormemente. Droga, quando ci sono giovani di questa portata è ovvio che giri”. “Una parte di noi, così, aveva un po’ l’illusione che magari facendo festa ogni giorno, le persone avrebbero capito che chi se ne frega di andare a lavorare sotto padrone, cioè, di prendere veramente tutti la propria vita in mano. E quindi, appunto, la festa ogni giorno serviva proprio per che le persone avessero l’occasione di liberarsi dal giogo del lavoro salariato. Poi invece mi ricordo che c’è stato questo incontro con Barchi con appunto Martinelli. A un certo punto Martinelli ci aveva letto questa lettera di una vicina che era andata a vivere in quel quartiere lì, proprio perché era un quartiere economico, no? E quindi le permetteva di avere una vita dignitosa. Solo che dal nostro arrivo, con tutto il casino che facevamo, invece stava diventando difficoltoso per lei dormire. Quindi ci siamo proprio resi conto che effettivamente noi stavamo arrecando fastidio a delle persone di un quartiere popolare. Se non ricordo male, avevamo affrontato in Assemblea e da lì appuntavamo un po’ maggiormente limitato, ecco, le nostre attività rumorose al fine settimana”.

“C’era una parte che ci odiava, ma perché naturalmente sbaragliava un po’ le carte. Ci fu anche la creazione di un’associazione, associazione Ardos, che ci faceva la guerra, naturalmente. Oggi li avremmo chiamati sovranisti, di allora insomma”. “Che noi dicevamo bast’Ardos’”.

“In questo ristorante di Lugano, il Fantasio, annunciata due ore fa la costituzione di un’associazione. Citiamo testualmente ‘Per il rispetto dei diritti dell’ordine e della sicurezza’. La nuova associazione ha inviato oggi stesso una lettera al Consiglio di Stato per chiedere lo sgombero immediato di quei Mulini occupati dallo scorso ottobre da drappelli giovanili” (Reportage).

“Allora manifestavano proprio in maniera diretta. A parte l’utilizzo della stampa, ma mettevano fuori anche degli striscioni. C’è da dire che in quei nove mesi lì avevamo spesso degli incontri con il Consiglio di Stato e con i municipali. Ma ci fu soprattutto una grossa presenza del Consiglio di Stato e mi ricordo in particolare la figura di Pietro Martinelli”.

“E lui aveva una sensibilità per questo tipo di realtà. Era venuto ai Molini, aveva parlato con noi, lui aveva era aperto. Voleva trovare una soluzione per questa realtà. Ne comprendeva l’importanza. Che lui non è arrivato con ‘No, questo non si fa, le regole sono così”. Quindi cavoli, sta succedendo qualcosa. La maggioranza dei giovani sono d’accordo con questa cosa. Io non mi chiudo, mi apro e cerco di capire cosa succede. Quindi secondo me è stato anche questo che ha fatto sì che noi potessimo durare tanto”.

“È l’impressione di persone così, che hanno dei bisogni assolutamente legittimi di esprimersi e che cercano uno spazio dove sviluppare e dove dar sfogo a questa necessità che loro sentono, che la società non gli offre e lo fanno anche in modo gentile e impegnato. Evidentemente, lo fanno in modo abusivo. Anche questo, indubbiamente. Il rapporto, quello che è il diritto di proprietà. Ecco, quindi c’è un problema da risolvere” (Martinelli).

“Pietro Martinelli ha preso anche un’ombrellata quel giorno lì, perché c’erano questi che manifestavano fuori dalla Muggina contro il Molino. Però erano un gruppetto di sette-otto persone. Non è che c’erano folle contro, cose così. Dopo chiaro, c’erano alcuni vicini, invece, che non erano contenti. Specialmente, c’era il signor Galletti, al quale sembra avessero ammazzato anche una gallina. E appunto, c’era un po’ questa situazione. Noi eravamo pressati da una parte da questi che volevano un posto per fare la loro autogestione e dall’altra parte dagli altri cittadini che volevano che andassimo giù e li buttassimo fuori in maniera violenta, diciamo. E noi eravamo lì in mezzo, che cercavamo di tenere questo equilibrio fra le varie soluzioni” (Marilena Antonioli Ranzi).

I rapporti all’interno

Se i rapporti con l’esterno erano spesso tesi, all’interno del centro sociale vi era un grande fermento e le relazioni fra le varie anime che componevano i Molini non erano sempre facili.

“Che al Molino la cosa bella era che potevi sperimentare e potevi sbagliare, quando al di fuori nella società sbagliare era severamente punito, venivi represso”.

“Mi ricordo, deve esserci ancora in giro un video da qualche parte, che a un certo punto abbiamo fermato la musica perché era pieno di merda di cane dove eravamo. E, visto che c’è il padrone del cane, per favore, la prenda e la raccolga. Però posso raccontarti anche di esperimenti antropologici fatti dentro al Molini: scopando, lasciando un mucchietto di merda lì in mezzo con la scopa e la paletta e osservando da sopra quelli che entravano, quanti scavalcavano facendo finta e finalmente quello che arriva e la prende su. O quello che ti pisciava davanti alla porta del bagno, piuttosto quello che aveva deciso in Assemblea che non bisognava fumare in cucina. E poi, il giorno dopo era il primo che si accendeva una sigaretta. Io penso che sia la normalità delle cose”.

“L’Assemblea era il luogo in cui tutti avevano il diritto di dire quello che volevano. Quello che poteva essere il più logorante era l’assoluta mancanza di pragmatismo a livello assembleare. Tu condividi uno spazio, quindi, volente o nolente, comunque la condivisione di uno spazio porta necessariamente alla condivisione di dei cosiddetti modus operandi. Il primo spazio entrando ai Molini a sinistra, che era il Barabba, aveva all’inizio una saletta in cui si era immerso questo gruppo di Punk, e poi avevano fatto una specie di bar. La situazione era veramente insalubre e anche la modalità punk, che era molto punk, e quindi c’è stato un momento in cui c’è stato un problema”. Ma cos’è che facevano? “Ma no, nel senso, dormire in una stanzetta senza fine con dentro i cani, ed era la prima cosa che vedevi”.

“Il bar si chiamava Fottiti e quello che mi ricordo è che a un certo punto questi ragazzi, che avevano appunto un atteggiamento estremamente provocatorio. In quel contesto diventa ancora più pesante perché eravamo tutti un po’ provocatori, quindi avere qualcuno che provocava nella provocazione, insomma, diventava una cosa quasi insopportabile. E ricordo che alla fine sono arrivati a scrivere delle cose, ma erano robe improponibili, un po’ razziste, leghiste. Roba schifosa, inaccettabile. E io ho in mente che nel giro di 20 minuti quel bar è stato raso al suolo. E le punk erano andati fuori”. “Cioè, a te può anche non disturbare andare in un bar a chiedere un bicchiere di vino e vedere una masturbazione dietro. Lì, in quel momento, quella cosa stonava. Quindi si trattava di trovare una soluzione. Mi ricordo ancora l’Assemblea che c’è stato un ridimensionamento: la parte punk ha dovuto prostrarsi all’Assemblea facendo vedere che aveva messo la testa a posto, che non si sarebbe più comportata da punk. Col senno di poi è un’aberrazione da un punto di vista dell’autogestione, eccetera eccetera. Però è una ferita aperta, è difficile la convivenza, è difficile e complicato mantenere una pluralità. Questa è stata la primissima potatura dei Molini Bernasconi. Poi ce ne sono state altre. Ci sono vari modi di tenere l’autogestione. Con le potature minori, poi fondamentalmente c’è stata una parte più culturale, invece l’altra una parte più di rivendicazione politica”.

“In un primo momento era molto plurale e c’erano parecchie persone che venivano da esperienze come GAS. Non è che non fossero politicizzate, ma non avevano come obiettivo principale l’azione politica, ma più un’azione culturale altra, no? Lì c’è stato, a un certo punto, una frattura tra questi due pezzi di Movimento che sarebbe stato interessante tenere assieme”. “Il risultato è nella singolarizzazione del nome, cioè, si è partiti con Mulini Bernasconi ed è diventato IL Molino. Secondo me il fatto che dal plurale si sia passati al singolare, la dice tutta. Si sarebbe potuto fare altrimenti? Probabilmente sì, ma non siamo stati in grado”.

“Noi siamo portatori e portatrici, quando siamo in un contesto di autogestione, di vissuti che hanno poco a che vedere con l’autogestione. Siamo individui non autonomi, che cerchiamo di costruire una realtà autonoma. Diventa complicato perché o si fa un lavoro su se stessi, verso l’autonomia, oppure si ricreano situazioni che, perché non è che semplicemente perché se lì le perdi, c’è un lavoro di fondo”. Ma tu sei un po’ arrabbiato rispetto a quella situazione? “Ma no, anzi, sono passati un sacco di anni. Non è questione di arrabbiarsi o meno. Io ho vissuto l’esperienza più bella della mia vita, se non l’esperienza più bella della mia vita, uno dei periodi più belli della mia vita all’interno dei Molini. Ho dei ricordi spettacolari”. Queste sono macerie.

Episodio 3: Lugano brucia

Introduzione

“L’esperienza dei Molini Bernasconi doveva essere bruciata, letteralmente, perché aveva un potenziale eversivo troppo grande. Troppo grande. Perché l’esperienza dei Molini Bernasconi è davvero stata qualcosa di incredibile dal punto di vista di cose che sono state fatte, come sono state fatte, persone che sono passate, eventi che ci sono stati, cultura che si è prodotta. C’è stato veramente tanta roba. E come al solito, come spesso accade, noi non siamo riusciti, perdona la parolaccia, a capitalizzare tutto quello che abbiamo fatto, perché lo stai facendo, lo vivi e basta. Cioè, io mi ricordo situazioni veramente di una bellezza incredibile, quasi da non riuscire a descrivere a parole. Ma proprio dal punto di vista umano. Anche cose deliranti dal punto di vista umano, però non c’è paragone. L’eccezionalità positiva e bella di tutto quel momento sovrasta di gran lunga qualsiasi meschinità singolare”.

Ai Molini Bernasconi, dopo nove mesi di occupazione, i rapporti fra le autorità e gli autonomi si stavano facendo sempre più tesi. Il 29 maggio del ‘97 era prevista a Lugano una grande manifestazione per opporsi allo sgombero del centro sociale, annunciato entro l’inizio dell’estate. Due municipali si recarono al Parco del Tassino per cercare di convincere gli autonomi ad evitare quella che era stata definita una “passeggiata di protesta” nel centro della città. Cinquecento persone manifesteranno comunque per le strade di Lugano.

“Io pensavo magari che c’era un po’ più di gente, invece bom non ce n’era così così tanti, ma pochi, ma buoni”.

Il giorno successivo l’Associazione Ardos, da sempre contraria alla presenza del centro sociale, in un comunicato affermerà di ritenere responsabili le autorità per qualsiasi incidente, rappresaglia o altra spiacevole situazione che dovesse verificarsi dentro e fuori i Molini. “Hanno praticamente incitato o istigato a compiere degli atti violenti contro il centro sociale”. Il 5 giugno in tre uffici postali vengono trovate delle lettere anonime. Una copia di queste è conservata nell’Archivio del Molino. Ve la leggo:

Domani un piccolo apparecchietto farà esplodere parte del centro studi di Trevano. La mia intenzione non è quella di assassinare centinaia di innocue persone, i drogati del centro, perché altrimenti non vi avrei inviato questo avvertimento. Il mio scopo è quello di mettervi in condizione di reagire.

Le scuole vengono evacuate, ma apparentemente nessuno si premura di avvertire l’Assemblea del centro sociale, dove per l’indomani è prevista una grande festa.

Fuoco, sgomberi e macerie. Questo è il terzo episodio di Macerie: ‘Lugano brucia’.

L’incendio ai Molini

“La notte dell’incendio me la ricordo ancora molto bene perché io mi trovavo al Barabba, insomma, al bar del centro sociale. Erano già finiti i concerti, però erano presenti più o meno 300-400 persone nei vari spazi, non erano concentrati tutti in uno spazio”.

“Noi non avevamo l’elettricità. Per funzionare avevamo sei, sette generatori. E avevamo installato tutto grazie ad amici elettricisti, dei quadri, tra cui anche valvole salvavita e tutto il resto. Non precisamente norme elvetiche, ma fatte bene”.

“Erano le due di notte, salta l’elettricità. Insieme a un altro vado a controllare il quadro centrale, vedo che la valvola salvavita era saltata. La proviamo a riattivare, ma non riparte nulla. Nel frattempo sentiamo qualcuno da fuori che grida ‘al fuoco, al fuoco’”.

“E mi ricordo appunto che questa ragazza entrò dentro nella zona Barabba gridando ‘al fuoco, al fuoco’. Allora uscimmo immediatamente per capire cosa stava succedendo e guardando al terzo piano c’erano già le fiamme che uscivano fuori dalle finestre, insomma”.

“Noi usciamo e vediamo effettivamente il fuoco nella sala biblioteca che era situata in alto, al 4º piano. Nella torre, che allora sì, c’erano gli occupanti che dormivano. Quindi io, e la prima cosa che feci, andai nelle stanze dove dormivano. Quando entrai nelle stanze, erano già avvolte completamente dal fumo dell’incendio. I compagni stavano dormendo tutti. Li svegliai immediatamente”.

“Ero tra quelli che stavano dormendo. È stato uno shock perché, chiaramente, appena sveglia non è che capisci subito, soprattutto in una situazione così. Ho visto il fumo, abbiamo dovuto attraversare la cucina che, ovviamente, essendo di fianco alla sala che era stata bruciata, era già piena di fumo. Era sempre stato strano”.

“Salgo ai piani dove avevamo visto l’incendio, in questa biblioteca che stavamo per inaugurare. Prendo un estintore, riesco a spegnere un principio di incendio. Mi accorgo che c’è un altro focolaio d’incendio e io l’estintore, ormai vuoto. Era in un cestino questo secondo principio di incendio. Conficco l’estintore dentro il cestino per spegnerlo e soffocarlo. E mi accorgo dall’altra parte si sente un botto. E delle fiammelle che si spargono. Non avevamo più estintori, erano finiti… Chiedo a un amico di portare su delle coperte bagnate per cercare di soffocare il fuoco. Nel frattempo che arrivano le sue coperte, mi rendo conto che ormai l’incendio è ingestibile e quindi decidiamo di evacuare lo stabile e mettere in sicurezza tutte le persone”.

“Salvammo tra l’altro anche la petizione con 10.000 firme, come riuscimmo a salvare anche tutti i cani, la cucciolata che c’era stata. Una decina di cani cuccioli e bisognava mettere in sicurezza anche loro, salvare anche loro”.

“L’incendio è partito proprio dalla Biblioteca del Molino, nella quale erano stati portati dei volumi anche unici, spesso proprio introvabili. Ed è stato veramente atroce, come simbolicamente, il fatto che l’incendio sia partito proprio da lì, quindi dal cuore, diciamo, della conoscenza del posto”.

“Allora i pompieri sono arrivati, qualcuno li ha chiamati, ritenemmo che arrivarono anche in ritardo. Non so se è una sensazione, perché in realtà, poi, quei momenti concitati sembrano lunghissimi”. “In fondo, da dove dovevano partire i pompieri? Da Viganello a dove eravamo al Molino non ci volevano neanche 5 minuti, penso, per arrivare e ci hanno messo una cosa tipo 40 minuti. Infatti, anche quello ci aveva proprio innervositi e esasperati. Perché quando vedi bruciare i mesi della tua vita, oltretutto in quel contesto lì, diventa esasperante proprio, no?”

“L’incendio me lo ricordo perché mi hanno telefonato. Era forse alle 04:00, perché non sapevano dove trovare l’idrante. Mio marito era il capo dei servizi esterni del Comune e mio marito non c’era. E quindi sono andata giù io, era appena l’alba quando sono arrivata lì. È stato abbastanza scioccante” (Marilena Antonioli-Ranzi). “I pompieri, 45 uomini e 16 mezzi, hanno lottato fino all’alba contro le fiamme, riuscendo ad impedire che si propagassero al resto dei Molini e agli edifici circostanti. Per gli inquirenti è stato presto chiaro, si è trattato di dolo” (reportage).

“Mi ricordo di aver svoltato a Morchino, quando la strada che scende dal San Salvatore ti lascia vedere il Golfo di Lugano. E di aver visto questa enorme fumata. Vedere bruciare quell’edificio era vedere bruciare un sogno, vedere bruciare un’idea, ore di lavoro. Non c’era neanche in quel primo istante ancora, l’idea del chi è stato, di come è andata. Anche adesso mi viene ancora il magone a ripensarci. Eh sì, c’è una bella canzone degli Assalti frontali in terra di nessuno che collego direttamente a quell’esperienza, a questo rogo”.

“Diciamo che spensero il fuoco, questo senz’altro, però la struttura restò inagibile, anche se noi restammo dentro perché avevamo la forza, naturalmente, di dire ‘questo incendio non preclude il fatto che un centro sociale debba esistere e quindi noi staremo, resteremo qui’”.

“Ma, chiaramente c’era la rabbia, una rabbia incandescente, direi. Tant’è che la stessa polizia non si avvicinava a noi perché capiva che umanamente eravamo piuttosto incazzati. Cioè, è stato molto più drammatico, il risveglio il giorno dopo, a vedere l’entità dei danni. Perché, naturalmente, con le opere anche di spegnimento, con l’acqua e tutto, oltre alla parte bruciata, c’era tutta la parte distrutta dagli idranti, dall’acqua. È andato bruciato otto-nove mesi della nostra vita”.

“E poi tanta solidarietà, ma anche commenti di gente che ‘dovevate crepare lì dentro’”.

“Sembra che ci siano stati dei litigi interni al centro, pochi minuti prima che in questi due posti diversi iniziassero due fiammate. Quindi questo resta aperto e finché le indagini non sono concluse, o forse mai si saprà cosa è avvenuto veramente”.

“Ci fu sicuramente il fatto riconosciuto dalla magistratura che è stato un incendio doloso, ma sui colpevoli non… Un colpevole non è mai stato trovato”. “L’inchiesta è stata una farsa, non hanno portato a nulla, non hanno mai interrogato nessuno. Non hanno nemmeno questi della Ardos”. “Ma, diciamo che un’idea vera e propria io non me la sono mai fatta. Cioè sicuro è che in quello stabile non si voleva che noi rimanessimo dentro perché era uno stabile che dietro la proprietà c’era l’Electrowatt. Quindi c’era una rappresentatività, anche legale, di alcuni politici noti che non volevano assolutamente che noi stessimo in quello stabile. C’erano i neofascisti che continuavano a tentare di attaccarci, c’era Ardos, questo comitato per l’ordine e la sicurezza. Quindi c’erano più elementi che avevamo contro”.

“Ma sospetto anche che dietro l’incendio del Molino ci fossero interessi speculativi, perché la mano pagata per incendiare il Molino era una mano professionista. Non era un semplice vicino esaurito, aveva una certa preparazione, una certa professionalità, che indubbiamente la mano che ha appiccato il fuoco l’aveva. Illudersi di spegnere con l’incendio questo Movimento… Sono dilettanti i politici, ma così tanto forse non credo. Era più che altro la volontà di farci spostare da Viganello, dal quartiere residenziale”.

“In qualche modo l’incendio ha risolto il problema per Viganello, e non si è mai saputo. Han fatto un’inchiesta, ma mai saputo i risultati dell’inchiesta” (Marilena Antonioli-Ranzi).

Il Maglio

“Il dialogo si era aperto perché il Consiglio di Stato aveva proposto una sede e a noi c’era stata venduta come sede provvisoria, in attesa che finalmente Lugano accettasse il dialogo”. “Ci proposero il Maglio…”.

“La struttura era del Cantone e fu il Cantone che la mise a disposizione, in disaccordo con il municipio di Canobbio. Lugano aveva tutto l’interesse che andassimo a Canobbio”. “Mercoledì prossimo una delegazione formata da autorità cantonali e comunali si recherà agli ex-Molini per intavolare delle trattative con gli occupanti (Reportage).

“Si era aperta una trattativa con l’autorità cantonale e otto municipi della cintura luganese. Ci sono state tre riunioni con otto sindaci e due rappresentanti del Cantone. Quindi vuol dire che c’erano dieci persone da parte delle autorità. Da parte nostra, abbiamo partecipato 24 persone diverse con un principio di rotazione, proprio per non avere sempre gli stessi rappresentanti che si dovevano confrontare con le autorità, ma che fosse proprio un processo decisionale democratico condiviso. Al tempo stesso, per garantire la continuità e non ricominciare da capo, al secondo incontro tre persone erano le stesse che avevano partecipato già al primo incontro, così davano continuità. Al terzo incontro, erano tre persone che avevano partecipato al secondo incontro e altre sette nuove. Questo ci ha permesso di trovare subito una soluzione come il Maglio. Per questo sorrido quando si imputa ‘Ah non sono mai gli stessi, non hanno indicato dei rappresentanti’. Ma se il pensiero che si presenta alla discussione è uno solo, è possibile trovare comunque delle soluzioni”.

“Quando una persona parla di un trauma, sta parlando di un fatto che accade che segna un netto punto di separazione tra ciò che è stato e ciò che sarà. C’è stato un prima dell’incendio e c’è stato un dopo l’incendio e tutto è cambiato. Quel prima e quel dopo hanno sicuramente influito molto anche sulla decisione dell’Assemblea del Molino di poi accettare”. “Mi ricordo quando c’era al momento di fare il trasloco, effettivamente alcuni hanno ritenuto che fosse molto più interessante e pagante in quel momento andarsene, per esempio, in Spagna, dove c’era un secondo incontro zapatista. Ecco, in questo senso qua è appunto interessante capire come una collettività ti permette comunque di restare fedele a te stesso, pur continuando a funzionare in maniera collettiva. Però, a volte bisogna saper fare anche un passo indietro rispetto a noi stessi e a noi stessi. Perché? Perché a volte bisogna vagliare il bene della collettività e dell’esperienza che stai facendo”.

“Ci fu molta animosità, insomma, sul cosa fare. Io penso che abbia avuto a che fare più sulla questione dei rapporti di forza in quel momento che ci era sfavorevole, perché comunque avevamo subito l’incendio ed eravamo piuttosto scioccati anche degli avvenimenti. E fu una decisione anche sofferta, soprattutto legata al fatto che eravamo lontani e si percepiva proprio questa volontà di metterci non solo in periferia, ma sul piano della Stampa, luogo adibito alle carceri. E quindi tutti noi, notammo questo abbinamento, no?

Episodio 4: Meglio al Maglio?

Introduzione

“Allora, il Maglio, sono stati anni molto, molto belli, che mi hanno dato tanto a livello personale. Cioè, il Molino, era una scuola di vita, comunque. Ti trovavi confrontato a gestire una persona che era in crisi, che era venuta lì a far serata, che magari la conoscevi anche poco e scoppiava a piangere e dovevi aiutarla a organizzare una manifestazione, a lavare i piatti, a… Imparavi veramente tantissimo. Davi, ma ricevevi. Quello che sono oggi, sicuramente c’è dentro l’esperienza del Molino, anche solo nell’imparare a costruire assieme agli altri un progetto. Il Molino è stata una gran scuola. L’altra nel vedere anche tutta la società che sta ai margini. Anche in Ticino, a volte ci si immagina che ci sia solo la vita che scorre normale. Invece c’è anche tanta gente che non sta bene, che non sta bene e che poi viene espulsa anche dai bar, anche da quei sistemi lì. Che invece al Molino potevano sempre arrivare e fare parte. Al Molino c’era ancora il matto del villaggio. Riesci a immaginare una società, perché l’hai vissuta, dove tutti abbiano loro il loro spazio, la loro legittimità di essere. In più fare un’esperienza come il Molino, puoi renderti benissimo conto di cos’è la narrazione a livello di mass media e cos’è la realtà. Mi ricordo era stata fatta una conferenza stampa a Casa Cinzia, dove poi avevano fatto vedere anche delle molotov, e avevano fatto l’elenco dei bastoni. E c’erano lì, tra i bastoni che avremmo usato per fare non si sa che cosa, c’erano quelli per fare jonglage. E lì cominci a dirti ‘okay, qui c’è un problema… State raccontando delle cose che non sono vere’. E anche quello da un lato ti disillude, però ti rende più lucido nel leggere la società, nel cercare le informazioni. Beh ecco, la politica sembra super distante, a chiunque. E invece, se partecipavi ai gruppi per il Molino, incontravi la Pesenti, incontravi Giorgio Giudici e ti rendi conto che in fondo potevi anche metterti al loro livello, nel senso, che eri assolutamente in grado di portare avanti una discussione con loro e che forse non erano questi esseri dotati di chissà quali poteri. E quindi diventava anche più possibile pensare di avere un ruolo attivo nella società, ecco, di contare qualcosa. E questo è rimasto per me. Chiaramente si cresce, magari si cercano altri modi per portare avanti i propri ideali. Però ecco, da quel lato lì penso di non aver tradito gli ideali che avevo allora, di averli ancora adesso, semplicemente li porto avanti in modo diverso. Sono sempre quelli”.

“Agli ex-Molini Bernasconi di Viganello si smobilita. È l’epilogo annunciato dopo nove mesi di occupazione illegale dei fatiscenti stabili di proprietà dell’Electrowatt. Un periodo difficile da un lato segnato dalle proteste della popolazione, dall’altro da diverse manifestazioni per l’ottenimento di un centro autogestito. Il tutto nella magmatica cornice di un interminabile serie di trattative tra occupanti e autorità politiche. Infine, lo sbocco pattuito di un trasloco provvisorio a Canobbio, nell’ex-grotto al Maglio di proprietà del Cantone” (Reportage).

Mi ricordo bene la prima volta che sono entrato al Maglio di Canobbio. È stato durante le giornate sportive della scuola media. Fra i vari sport proposti avevo scelto le bocce. Mi sembrava tutto sommato l’attività più innocua e meno faticosa. Inoltre, e soprattutto la bocciofila era proprio accanto allo stabile che ospitava il centro sociale. Con un compagno, poi, siamo scappati dal corso e siamo entrati. Mi ricordo degli spazi che mi sembravano grandissimi e misteriosi, pieni di graffiti, gli striscioni appesi, il pavimento appiccicoso e l’odore di birra rancida. Mi ricordo di un ragazzo che stava spazzando la piccola sala concerti fumando una canna. Mi ricordo anche la ramanzina dell’istruttore di bocce che diceva che quello non era un posto adatto a noi.

“Io non ho ricordi così brutti al Maglio. Anche se Viganello era chiaramente di massa, soprattutto le serate, la più grande era più… Al Maglio era più piccolino, più appartato. Però, secondo me, ha coinvolto più persone”. “Era un luogo anche più abitabile, da un punto di vista proprio della di avere una stanza e dormirci. Credo che si possa dire che il numero di occupanti sia aumentato rispetto a quelli che erano al Molino. Effettivamente faceva freddo, non c’erano docce, non c’era acqua. Cioè, era veramente essere in campeggio tutti i giorni”. “IL Maglio, vabbè, era stato un ristorante e anche un hotel, quindi c’era una cucina comunque industriale, quindi si poteva cucinare per tanti. C’era una sala grande dove si potevano fare i concerti, c’erano degli uffici dove si poteva fare, stampavano un giornale, ai tempi. Piuttosto che preparavamo i volantini per le attività che venivano svolte, piuttosto che preparare tutta l’attività politica”.

“Al Maglio c’era una situazione che io vedevo già ben avviata, anche se adesso fa ridere a pensarci. Adesso che ha 25 anni d’esperienza, lì ne aveva tre. Comunque, non si era più in centro città e lì credo che da subito si è rimpianto un po’ di andare in questa struttura. Non era più così facilmente raggiungibile, non era insediata all’interno della città”. “Cioè la gente faceva fatica a venire al Maglio. Non c’era un bus, infatti si era creato il MuliExpress, che era il bussino del Molino”. “Una sorta di furgone tutto graffittato che girava. Soprattutto il venerdì e il sabato sera faceva dei giri in centro a raccogliere la gente”. “Poi eravamo vicino al carcere, che da una parte poteva essere interessante. Però sai, sempre un po’ ghettizzato, ti senti sempre un po’ come, non so… Sai, i Molini Bernasconi erano in centro”. “Solo verso la fine abbiamo capito il potenziale che aveva il Maglio come struttura, era una valle intera in realtà. Se fossimo legati meno alla nostalgia dello stare in città, ma che però era importante effettivamente come cosa, ecco magari avremmo voluto di più del periodo Maglio, ma non è stato così”.

“Allora si parla della possibilità di portare il centro autogestito qui a Cannobio, lei come reagisce?” “No, non sono d’accordo, che facciano qualcosa per i bambini piccoli, che parchi e roba del genere fanno schifo”. “Mi dica un po’ chi gestirà l’ordine e la pulizia giù al Maglio, una zona discosta. Ci sono boschi, c’è tutto. Cosa arriverà? Insieme a quelli con le buone intenzioni, chi arriverà lì?” “Tutta la cosa è partita illegalmente. Non so perché si dovrebbe dare uno stabile del Cantone a questa gente. Poi proprio qua, dico”. “Li ha visti alla televisione, quelli lì? Quando le persone stanno buttate in terra a parlare con gente più a posto di loro, che immagine possono avere sulla popolazione?” (Reportage).

Fuoco, sgomberi e macerie. Siamo al 4º episodio di Macerie: ‘Meglio al Maglio?’.

Politica e cultura al Maglio

“Di ritorno dal Messico, dall’esperienza fatta in Messico, ho deciso, proprio motivata anche da tutto quello che avevo vissuto in Messico, di chiedere di diventare occupante e quindi di impegnare il mio tempo al Molino, nel Movimento. Si doveva passare dall’Assemblea, chiedere se si poteva diventare occupante, e le motivazioni. Cioè, la motivazione non poteva essere ‘perché non ho una casa’. Quella non era il motivo per cui si diventava occupanti. Si diventava occupanti perché, grazie al fatto che si aveva quantomeno l’affitto pagato, si poteva dedicare il proprio tempo al Molini”. “Cioè, bisognava abbracciare la causa, nel senso, dovevi avere anche dei motivi alti. Nel senso, avere un bello slancio, una bella energia. Perché anche comunque fare gli occupanti non era una cosa semplice. Da una parte era super bello perché c’era un bel gruppo, però c’erano anche tante, tante cose che alla fine non è che funzionassero più di quel tanto. Nel senso, che chi occupava poi doveva proprio gestire dalla A alla Z. Dal momento che ci si alzava in avanti, comunque, c’era roba da fare, 24 ore non-stop”.

“Un altro mito da sfatare è che fosse davvero super comodo abitare o essere occupante. Perché essere occupante, sì, non devi pagare l’affitto, ma tutte le altre spese, dalla cassa malati a comprarti vestiti, rimanevano a tuo carico”. “Comunque andavo a lavorare e cercavo comunque di far conciliare il mondo lavorativo con il mondo del Molino. A un certo punto ci fu anche un dibattito importante relativo al livello di militanza che si doveva dare ai Molini. C’era chi sosteneva che ognuno di noi dovesse lasciare la propria professione per potersi dedicare al 100% all’autogestione. Era un dibattito che aveva a che fare, forse, con la ricerca di una maggiore coerenza possibile. Insomma, se tu a pratichi l’autogestione, coerentemente dovresti abbandonare la vita di tutti i giorni”.

“Un centro sociale ha bisogno di personale, di persone, 24 ore su 24. Come quando negli alberghi, il personale ha la propria stanza. Ecco, non è qualcosa di chissà che strano”. “C’è stato il tentativo di dire alle 8 tutti si fa colazione tutti assieme, si inizia la giornata. Non ha mai funzionato perché effettivamente c’era chi aveva la chiusura del bar, e non poteva fare la colazione. C’è chi ‘son libero di alzarmi quando voglio’… Sembrava un sistema troppo fiscale e troppo organizzato per”. “Io ero chiaramente ero dalla parte di chi faceva colazione tutti assieme alle 8, perché io sono di indole meno anarchica. Sembrava un’imposizione per alcuni. Al Maglio potevi anche sederti sotto il tiglio, passarci la giornata”.

“Poi c’era il ponte ologrammi ed era un posto che si facevano tisane. E poi abbiamo iniziato a fare le prime cose vegane e a quegli anni non so se qualcuno sapeva cosa fosse il veganesimo. Adesso se ne parla in maniera… Però allora… E noi eravamo un po’ i primi che abbiamo portato questa cosa. Ed era molto buona. E poi sono iniziate ad arrivare al Maglio anche degli autori importanti. C’era Marco Filopat e lui portava avanti tutto il movimento cyberpunk. Si era creato anche questo gruppo femminista che si chiamava Fica Futura ed era interessante perché parlava di cyber-femminismo. Punto ologrammi, la cosa interessante che portava avanti un discorso non solo all’interno del Molino, ma portava in giro, nel senso che noi facevamo delle TAZ, occupavamo degli spazi abbandonati per fare dei rave-party. E qui forse si potrebbe fare questa riflessione del fatto che chi era più politicizzato non lo vedeva questa cosa, non vedeva l’interessante di questo aspetto”.

“All’interno dell’Assemblea c’erano come due approcci diversi nel fare politica: uno era più legato alla lotta politica, che utilizzava un tipo di linguaggio più razionale, quindi più legato alla manifestazione di protesta fatta con gli striscioni e gli slogan. E poi c’era chi sentiva di volere esprimersi con un tipo di linguaggio un po’ più culturale, attraverso la musica, ma anche con la ricerca di un tipo di comunicazione che fosse meno impostato. Tanto è vero che un certo punto si fecero dei comunicati stampa sintetici e più razionali, accompagnati da comunicati stampa di poetici. Questo però durò poco, si sentiva forse questa spaccatura in cui chi aveva un modo di approcciarsi alla lotta politica più razionale non vedeva di buon occhio quello più culturale. Secondo me questo è stato un grande errore. Togliere questa parte significa togliere una voce che fa parte del Movimento. L’autogestione è sì un lavoro continuo sul campo, ma anche un lavoro all’interno di noi. Perché se mettiamo a posto quello che siamo dentro di noi, poi, dopo quello che è bello fuori, avviene di conseguenza”.

Il gruppo donne

“E poi al Maglio, invece, abbiamo sentito in alcune la necessità di trovarci. E abbiamo incominciato a creare un gruppo donne. Abbiamo deciso di ritrovarci per parlare e capire soprattutto come mai eravamo così poche. E quindi cercavo di analizzare il perché non ci veniva, per esempio, così normale parlare di politica, perché non ci venisse così normale di dire la nostra, perché… Arrivando poi, infine, anche su suggestione mi ricordo in particolare di una donna, una compagna che ci ha portato un testo nel quale si parlava proprio di femminismo e di come era importante quando parlavamo di noi stesse, non solo fermarci a quello che ci opprimeva, ma di capire anche il valore che noi avevamo”.

“In più occasioni, comunque, mi sono resa conto che come donne non eravamo rispettate allo stesso modo nel parlare, nel dire le cose. C’è una consapevolezza a livello teorico, ma quello che è ancorato a livello culturale di reazioni così rimane la stessa cosa”.

“Io ai tempi ero la ragazza di Alex ed ero la ragazza di Alex. Non ero Mirella, ero la ragazza di Alex, e questo per me era una rottura di palle, perché io volevo essere Mirella come mia identità, invece ero sempre la compagna di”.

“Sicuramente ti sentivi sganciata da certe dinamiche che invece si possono vivere ancora ovunque, ma purtroppo non era neanche così consolidato, così certo, così così convinto. Comunque, c’era l’esigenza, c’è sempre un po’ stata l’esigenza di avere un gruppo donne. E, ecco, questo non è stato accettato facilmente dagli uomini che c’erano all’epoca. Questo perché si diceva che la cosa era superata, che in realtà non avevamo bisogno di farlo. E quindi tra il serio e lo scherzo, comunque, veniva criticata l’esistenza di questo gruppo. Ho capito che non era, cioè così facilmente, tutto superato, no?”

“Cioè quando io oggi vedo delle compagne giovanissime che parlano e prendono il megafono in mano e dicono quello che pensano e portano avanti iniziative, io mi dico, ‘ecco, è cambiato qualcosa, ne valeva, ne valeva la pena, tutto quello che abbiamo fatto’”.

I cani del Molino

“I cani del Molino, i famosi cani del Molino, sono nati al Molino di Viganello. E quindi, quando sono nati, ce li siamo spartiti: uno lo prendo io, uno l’ha preso lui, forse un paio sono anche stati uccisi”. “Al Maglio, loro sono diventati grandi. Qua e là tendevano a fare branco, comunque erano cani anche abbastanza grossi, non erano barboncini. E, niente, bom, secondo me si comportavano bene, non hanno mai morso nessuno. Però se uno aveva paura, trovarti quattro-cinque cani così che ti salutavano abbaiando quando arrivavi al Molino, non era…”.

La droga e lo spaccio

Fra i vari appellativi per definire con disprezzo il centro sociale, vi era anche quello di ‘centro lozza’. Lozza, nei due significati del termine: quello di sporcizia, ma anche nella definizione gergale di eroina. “Ma no, devo dire che c’era un bell’ambiente, poi c’era un sacco di gente. Erano gli anni in cui erano aperti i canapai. Un casino di gente. Quello che mi ha sempre sorpreso è che sì, succedevano casini, però niente di grave. C’era stato diverse volte tentativi di spaccio di cocaina, e sicuramente qualcuno è andato anche a buon fine, sicuramente. Però mi ricordo qualche rissa, magari di qualcuno che cercava di piazzare coca e così, che l’avevamo mandato via o gliela abbiamo presa e sparsa in giro, così, o buttata nel gabinetto”. “Lo spaccio non era tollerato. È chiaro che, come in qualsiasi altro posto, tu puoi non tollerarlo e poi ci può essere qualcuno che spaccia. Noi facevamo informazione. Quindi c’erano anche dei volantini che distribuivamo, che spiegavano che lo spaccio non era accettato. Il fatto che comunque informavamo che non si potesse spacciare faceva sì che sia chi voleva comprare, sia chi voleva vendere, insomma, lo sapeva che non era ben accetta questa modalità. Rispetto al consumo, a me pare che la politica fosse un po’ all’interno dello spazio per non consumare. Chiaramente, le canne venivano fumate all’interno senza che qualcuno dicesse niente. Però per quanto riguardava cocaina, piuttosto che pastiglie così, ecco, quello mi ricordo che non era tollerato”. “Ma, anche a uso personale non potevi venire con l’eroina in vena, cioè non è che non potevi fartela lì o che non potevi venderla. Le droghe pesanti non sono mai state accettate. Dopo chiaro, se non ti facevi notare, che sbiascicavi solo un po’… Dopo però chiaro, non puoi neanche fare la perquisa, non puoi perché non vuoi. È assolutamente fuori da ogni concetto controllare chi entra e cosa c’ha”.

“Non vai nel bagno del Molino a tirar di coca, tanto che nel gabinetto sulle tavolette mettevamo la carta vetrata in modo che uno non potesse mettere giù le striscia perché gli rimaneva giù la metà della roba. Dopo il consumo, comunque c’era. La coca, diciamo, era un problema comunque grosso, perché chi arrivava molto su di giri per la coca e magari molto aggressivo, era anche molto difficile da gestire. La droga circolava e non ho problemi a dirlo perché mi sento meno ipocrita che tutti gli altri locali del Ticino, dove assolutamente gira, ma non è neanche fatto un lavoro di prevenzione da parte della struttura stessa. Ecco, noi quello cercavamo di farlo”.

“Era più il consumo di cannabis che rincoglioniva molti compagne e compagni. Ma quello era una questione privata, non mi sembra…” “La birra era del Molino, il bar era del Molino, apriva al cinque e nessuno poteva berla prima”. “La mariuana ce l’avevi in tasca e se te la volevi fumare… Come facevi a vietarla? Potevi dire ‘cerchiamo di fare meno’, però…”

“Noi avevamo l’autoproduzione al Maglio sul tetto, con delle belle piante in vaso che venivano poi date all’Assemblea. Finita l’Assemblea, se uno aveva la costanza, veniva dato il necessario per fumarsi due canne”.

L’Assemblea

“L’Assemblea è una discussione di molte ore su diverse tematiche che toccano dalla gestione corrente del centro sociale alla progettualità politica”. “Direi che l’Assemblea è il luogo centrale decisionale e lo è sempre stato, proprio perché noi dell’esperienza zapatista, per noi era centrale”. ”L’idea di andare avanti tutti insieme, no? Non si voleva perdere nessuno per strada”. “E chi è che può partecipare all’Assemblea? Tutti”. “È vero che sembra generica la cosa, ma in realtà l’Assemblea è aperta”. “Tutti quelli presenti possono esprimersi sul tema e questo vuol dire che il processo decisionale è molto lento, perché se qualcuno che arriva al primo giorno al Molino vuole dire qualcosa, viene ascoltato. E poi piano piano si costruisce una riflessione e delle decisioni”.

“Magari delle volte c’erano delle situazioni che non si sbloccavano. In quel momento, il potere decisionale si trasferiva quasi più su quelli che noi chiamiamo i ‘crocchi’, che erano dei ritrovi più o meno spontanei, di persone che si mettevano a parlare. Discutendo e discutendo fra questi crocchi, alla fine la soluzione nasceva. Non l’avevi immediata il lunedì prima, ma l’avevi il lunedì dopo”. “Non abbiamo mai votato. Anche quello, appunto, è un buon esercizio a livello personale, perché vuol dire che qualcuno deve essere in grado di mollare e dire ‘okay, forse tentiamola in quella strada lì”. “Questo certamente comporta dei tempi molto più lunghi, ma il tempo non era un problema per noi. Per noi era importante l’approfondimento della tematica e la possibilità di trovare una risposta che ci potesse accomunare il più possibile rispetto alle varie posizioni che potevano esserci”.

“Una cosa che, questa penso che è più difficile da capire, è il fatto che l’Assemblea decide una cosa e tutti quelli che erano in Assemblea, anche quelli che all’inizio non erano d’accordo, poi difendono l’idea dell’Assemblea. Quindi non si spacca mai il Movimento, perché se alla fine tutti insieme si è deciso di fare quella strada lì, niente, poi tutti assieme la sosteniamo”. “Gestire un’Assemblea con queste modalità, in cui tutti possono parlare, non si vota e si decide solo una volta che quasi tutti sono convinti, uno dirà è irrealistico. Eppure il Molino lo ha fatto e ha preso tantissime decisioni importanti, essenziali anche per la propria vita, senza grossi patemi”.

“Attenzione. Ci sono poi dopo dei livelli che non per forza l’Assemblea riesce a gestire. Due, in particolar modo: uno che riguarda chi vive all’interno della struttura. All’interno dell’Assemblea si aggregavano tematiche che riguardavano analisi e proposte di iniziative politiche e convivenza degli occupanti. Sono delle tematiche quasi domestiche, no? Banalmente, chi si deve occupare della lavanderia, piuttosto che dei gabinetti e via dicendo. Quindi, ci siamo confrontati sicuramente anche con questo aspetto. E ci siamo detti, attenzione, qui rischiamo di mettere tutto dentro a un grande calderone ed è difficile gestire”. “Quindi un tot di cose venivano delegate ai gruppi di lavoro, che quindi facevano sia delle riunioni sia le cose pratiche”.

“La cosa più importante è essere consapevoli di quanto pesa la tua parola. Se io so di essere super stimata, che posso pilotare una scelta, devo portare il peso di questa responsabilità. Però se le persone ne sono consapevoli, ecco che si cerca di abbassare un po’ questo rischio di creare dei leader. Non ho l’illusione che fosse sempre stata democratica, però si faceva il possibile perché fosse così”. “Non voglio dire che l’Assemblea sia perfetta, che sia esente da critiche o difetti. Però, al tempo stesso, è ancora il modello migliore e credo che si potrebbe traslarla in altri posti. Si dice sempre che la democrazia non è perfetta, ma è il modo migliore, per me è l’Assemblea: non è perfetta, ma è il modo migliore che io conosca”.

“Se davvero volete essere autogestiti, perché non fate una cooperativa? Io conosco dei giovani che si sono messi insieme, hanno aperto un centro di fitness. Loro si autogestiscono. Si autogestiscono perché sanno che devono far quadrare il bilancio. Sanno che alla fine del mese, se sono riusciti a ottenere un guadagno sufficiente, possono continuare e se no no. A queste condizioni, io capisco l’autogestione. Se insieme alle 7000 firme raccogliete anche cinque franchi per ogni firma, avreste avuto un appoggio molto più convincente, una solidarietà più palese. E avreste avuto anche i mezzi per autogestirvi”.

“Noi siamo abituati a stare in una società che adesso ha delle regole. A un certo punto, arriva qualcuno che ti dice ‘tu queste regole puoi trasformarle. Non ti so dire se starai peggio o se starai meglio. Però le puoi trasformare. Puoi creare un mondo diverso’. Nei centri sociali si parla di questo, di una trasformazione. E questo credo che faccia paura, perché ti porta a dover andare a indagare, a cambiare. E quindi il salto nel buio non sempre è facile da fare”.

“Dalla parte del politico, il Molino veniva vissuto come un problema. Ma il Molino nasce così in realtà. Nasce come un movimento che ha tre elementi, che sono quello politico, l’aspetto di socialità – quindi di creare solidarietà, ma di creare anche i servizi – e l’aspetto culturale. Penso che se fossimo stati forse solo un movimento culturale, probabilmente così non ci sarebbe stato lo stesso percorso, no?”

“Perché fanno proprio rumore e danno proprio fastidio. Come si fa ad avere fiducia?”. “Trovare altre situazioni, ma non a Canobbio, in quanto è troppo vicino alle abitazioni… non trovarsi con i problemi di Viganello, disturbare la gente che è abituata a vivere tranquillamente”.

“Questo insediamento in questo posto che, appunto, per noi già era isolato e che sicuramente avevano pensato proprio perché isolato, in realtà dava fastidio comunque. Gli abitanti di Canobbio che abitavano sopra alla collina erano comunque disturbati dalla musica, dal rumore che ci poteva essere nel fine settimana, e quindi via di commissione cerca, commissione trova, commissione forse. Tra municipali di Lugano, municipali di Canobbio e Cantone, io ricordo riunioni alla sede del Maglio, riunioni in municipio a Lugano e riunioni in governo Bellinzona. Sono state di una grande intensità di dialogo, che, sì, non ha portato comunque a nulla di concreto, anzi. Alla fine di anni e anni di questo tipo di incontri, hanno successivamente portato allo sgombero del Maglio”.

Episodio 5: Non potevamo esimerci dal farlo

Introduzione

“Il passaggio al Maglio, attorno alla fine degli anni ‘90 e all’inizio degli anni 2000, è stato un momento di rottura, di fermento attorno alla questione no global. Le esperienze di Seattle, di Genova, di Davos, di Praga, di Napoli, di Göteborg… Ha saputo generare collettivamente, umanamente, un’autocoscienza collettiva, popolare in cui il sistema veniva assolutamente messo in discussione. Però, piano piano, ci si iniziava a rendere conto che il cambiamento non avveniva e ci si iniziava a rendere conto che non avevamo una possibilità d’alternativa tra virgolette. Non stavamo costruendo niente, se non all’interno degli spazi sociali, di alcuni territori. Però rimaneva tutto molto limitato e poi, con la repressione enorme che ha subito questo Movimento, è parso evidente che di prospettive ce n’erano poche. Non per niente per me il cambiamento attorno agli anni 2001-2002 è notevole, nel senso, il cambiamento di divisione, di percezione del mondo e di come la sovrastruttura di governi, Stati, polizie, eserciti, eccetera eccetera ha cambiato una dimensione d’approccio verso chi osava dissentire”.

In questa breve storia dell’autogestione in Ticino era importante dedicare uno spazio a quello che è stato definito il ‘movimento no global’, perché ha avuto implicazioni a tutti i livelli. Collettivamente, perché ha cambiato il modo con cui era possibile immaginare una lotta politica, e personalmente, perché ognuno di noi ha vissuto in maniera significativa quelle giornate. Difficile capire quando e come inserire questo tema in una cronologia. Nel bene e nel male, la parabola di questo Movimento ha influenzato le scelte e le strategie dell’autogestione in un periodo piuttosto lungo.

‘Non potevamo esimerci dal farlo’. Questo è il 5º episodio di Macerie.

Il movimento no global

“Diciamo che anche tutti quei movimenti lì sono nati un po’ sulla scia comunque dello zapatismo. Cioè nel ‘94 i Chiapas, gli indigeni, insorgono e mettono l’accento anche su quanto tutto sia connesso. Si comincia a parlare di globalizzazione, cioè del fatto che non si può più pensare a un solo Paese per il cambiamento, anche perché ci sono tutti gli accordi internazionali di libero scambio. Diciamo, anche lì, lo zapatismo, quello che diceva è che ognuno nel suo Paese può portare avanti la lotta. Cioè, non è che dovete venire tutti in Messico a lottare per noi, fate la vostra parte nel vostro Paese”. “Quindi era naturale, nel percorso storico del Molino, criticare il neoliberismo su scala internazionale. Come Molino, partecipammo alla prima manifestazione, se si vuole, che fu poi definita dalla stampa no global. Il Movimento, in buona parte originato dalla spinta zapatista che si era un po’ diffusa in tutta l’Europa, in tutti i centri sociali, in tutti i movimenti di base, si ritrova a Ginevra, per la prima volta a livello internazionale, a contestare il neoliberismo con l’organizzazione mondiale del commercio, che prevede la supremazia dell’economia e del capitale sulle persone e sulle collettività, sulle popolazioni”.

“Circa 500 mila giovani si sono radunati alla stazione di Cornavin, e a gruppi hanno messo a ferro e fuoco il quartiere di Plainpalais, abbandonandosi a veri e propri episodi di guerriglia urbana con lanci di pietre e di cocktail molotov. Inevitabili, durante buona parte della notte, gli scontri con la polizia, che hanno tirato lacrimogeni e arrestato una ventina di persone provenienti in massima parte dalla Svizzera tedesca, dalla Francia e dall’Italia. Cinque, come detto, i feriti, quattro agenti di polizia e un dimostrante. Intanto, infuria la polemica” (Reportage).

“E da lì è stato un crescendo. Poi ci fu Seattle nel ‘99 e ci fu tutta una serie di appuntamenti”. “Il Molino è parte integrante di questo, con il Movimento svizzero, e la sua posizione geografica ci permetteva di fare da tramite tra il Movimento italiano e il Movimento europeo in generale”. “Sicuramente a livello svizzero eravamo uno dei punti di riferimento, quindi noi facevamo riunioni sia in Svizzera tedesca che in Svizzera francese, sia poi dalla Svizzera tedesca o francese venivano al Molino. Come Molino, poi, collaboravano anche tanto con l’Italia. Quello che noi volevamo fare era rendere tutti più consapevoli. E l’altro obiettivo era bloccare questi accordi che coinvolgevano l’intero mondo, ma senza chiederci niente. Perché poi, se in Svizzera una decisione venne presa, magari possiamo andare a votare, possiamo fare delle cose così. Invece lì venivano presi degli accordi che avrebbero influito su di noi, senza che noi neanche lo sapessimo”.

Il WEF di Davos

Ma ci si credeva davvero di riuscire a bloccare il WTO “Devo dire, penso proprio di sì. Cioè, il nostro obiettivo era un po’… la riassumevano bene, la rappresentazione di regnanti chiusi nel loro castello dorato e assediati dal popolo sotto. Noi sognavo di irrompere, almeno, io personalmente quando partecipavamo a queste cose, il nostro obiettivo non era solo andare a fare la sceneggiata sotto castello, era entrare nel castello e rovinare la festa a loro”. “Sì, noi lì penso che pensavamo davvero che potevamo bloccare questa modalità di fare, potevamo cambiare le cose. Potevamo spiegare che le scelte prese qua avevano delle influenze su poi come vivevano le persone, piuttosto che… e noi pensavamo di poterli bloccare questi forum”. “Volevamo poter avvicinarci il più possibile e cercare di bloccare i loro lavori. Consapevoli del fatto che non potevamo arrivare, dicevamo, comunque, possiamo anche bloccare le vie di comunicazione per fare in modo che il WEF possa essere in qualche maniera sabotato nei termini di non far arrivare le persone che devono partecipare”. “E ci credevamo perché eravamo in tanti, perché comunque funzionava, la gente ne parlava. E vero, magari si raccontava anche degli scontri e così, però, soprattutto per una volta, anche i media davano voce alle nostre rivendicazioni, a quello che si chiedeva. C’era lo spazio per descrivere il mondo diverso che volevamo”.

“Signora, cosa pensa di queste manifestazioni contro la globalizzazione?” “Se è una cosa pacifica, sono pienamente d’accordo. Basta che non combinino guai facendo dei vandali, così…”. “Mi sembrano delle situazioni abbastanza estremistiche, nel senso che la violenza non ha mai portato a trovare delle soluzioni positive per risolvere i problemi”. “Ci sono altre maniere più pacifiche per manifestare le proprie opinioni. Speriamo, appunto, che non succeda nulla di grave” (Reportage).

“Dopo il decadimento post anni ’70 e, sostanzialmente, una situazione di silenzio del Movimento degli anni ’80, negli anni ‘90 si è man mano ricostituito. Forse anche con un elemento nuovo, quello che riguarda anche l’esistenza di Indymedia, no? Questa piattaforma che permetteva ai vari movimenti di poter interagire all’interno della stessa piattaforma. Per la prima volta potevamo sapere esattamente cosa succedeva in qualsiasi parte del mondo. Questo ha permesso al Movimento di diventare globale immediatamente e quindi di dare un’accelerazione anche a livello di organizzazione, in maniera molto più repentina”.

“Diciamo, il clima tra di noi che organizzavano era anche molto bello, molto piacevole da viversi. Era una sorta di comunità”. “Allora ti dicevi, non siamo solo noi, per dire, anche metti i 2-300 dell’Assemblea del Molino, quei pazzi che sognano un mondo diverso. Ti rendevi conto che c’era gente in tutte le parti del mondo, con cui potevi… che non eri solo nel pensarlo questo”. “Partecipare a questo Movimento era anche costruire qualcosa di diverso. Non era essere solo contrari, era dire no, noi vogliamo un mondo dove i diritti delle persone siano rispettati. Adesso, non vorrei dire una cazzata, ma la dico lo stesso. Tipo una grande famiglia o tribù. Io sono stata in tantissime città italiane, in tantissime manifestazioni, cioè si puntava proprio a questa rete dal basso che diventava sempre più grande, sempre più forte e sempre più convinta. Lì è stato proprio un momento di alto, di consapevolezza”.

“All’invito delle organizzazioni ecologiste e terzomondiste, rispondono infatti molte più persone del previsto, oltre un migliaio giunti anche dall’estero, pronti a sfidare il divieto ufficiale e a marciare verso la sede del Forum. Quando i pochi agenti tentano inutilmente di sbarrare il passo ai manifestanti, nascono i primi tafferugli. Le vetrine di un McDonald, tipico emblema americano, vanno in frantumi, mentre nelle susseguenti risse un poliziotto rimane ferito al capo…” (Reportage).

“E a Davos ci si è trovati tra i piedi, nel senso è qua vicino. E lì abbiamo cominciato a organizzare mobilitazioni contro questo forum, che non aveva secondo noi diritto di esistere”.

“La polizia, colta completamente impreparata e con una tattica inefficace da una parte. Dall’altra un gruppo di manifestanti, di autonomi, decisi allo scontro, hanno trasformato una manifestazione che si voleva inizialmente pacifica, in una serie di tafferugli, conferimenti e vandalismi” (Reportage).

“Quindi a Davos, questa riunione dei potenti del mondo che decidevano le sorti di milioni e miliardi di persone dell’umanità. E anche lì abbiamo sempre collaborato con le altre organizzazioni che protestavano, che chiedevano voce in capitolo e che sostanzialmente dicevano ‘non avete legittimità di trovarvi a prendere queste decisioni’”.

Il G8 di Genova

“Ci sono stati, per esempio, dei ciclisti che, provenienti dalla Germania in bicicletta, si stavano recando a Genova. Avevo sospeso il trattato di Schengen e le frontiere erano chiuse e alcuni di questi ciclisti erano stati respinti alla frontiera con l’Italia, quindi a Chiasso”.

“Antipasto genovese questa sera a Chiasso. Un centinaio di manifestanti tedeschi e ticinesi, infatti, ha dimostrato contro il G8, bloccando un treno e prendendo d’assalto la dogana” (Reportage).

“Il Molino si è subito mobilitato, a fianco di questi ciclisti, che da militanti hanno detto ‘se anche solo uno di noi non entra, noi tutti non entriamo e rimaniamo qui con quella persona finché non possiamo entrare tutti’”.

“Gli antiglobalizzazione hanno dapprima occupato la stazione. Sdraiatisi sui binari, hanno impedito al treno di ripartire da Chiasso. Motivo del loro gesto, il fermo da parte della polizia di quattro dimostranti germanici diretti a Genova” (Reportage).

“Hanno occupato una casa che si è chiamata Hotel Genova per l’occasione a Chiasso. Si sono fatte delle manifestazioni che sono state anche il blocco della frontiera ferroviaria e quindi della dogana ferroviaria di Chiasso. La presenza di poliziotti antisommossa che prima hanno preso le persone di peso per toglierle dai binari e poi, quando ci siamo spostati a Chiasso-Strada hanno poi intimato lo sgombero della strada. Poi hanno cominciato a sparare lacrimogeni e a, sostanzialmente, sgomberare le persone anche con la forza, insomma”.

“E si è andati al Consolato tedesco e ci sono stati anche degli altri tipi di manifestazioni, dove delle persone sono state caricate sulle camionette della polizia, verbalizzate e rilasciate. Anche per quello che era successo alla dogana, ci sono state delle persone denunciate che hanno subito un processo, una procedura e che sono anche state condannate”.

“Le manifestazioni di Genova erano organizzate anche sui punti di interesse, praticamente, in cui l’obiettivo era sostanzialmente molto simile a quello di Davos, cioè l’idea era quella di bloccare i lavori. L’idea non era quella di sfasciare la città, beninteso. Quindi ricordo riunioni a Zurigo, a Berna”. “Di Genova mi ricordo il primo giorno, dove poi è morto Carlo Giuliani, la paura, perché anche lì noi avevamo partecipato a un corteo, ma in pochissimo tempo è diventata una fuga dalla polizia che si era fermata in mezzo alla strada. Sembrava il Far West, cioè avevi veramente paura. Scappavi, non conoscevi la città e non avevi fatto niente. Cioè, tu stavi facendo un corteo e non riuscivi a leggere neanche le dinamiche del… non riuscivi a orientarti, no? O a trovare un posto sicuro”.

“Sono state le giornate degli scontri, delle tute bianche, dei black-bloc, come venivano definiti allora, a cercare di entrare nella zona rossa. E poi dopo c’è stata piazza Alimonda con anche la morte di Carlo Giuliani. Ed è stato un giorno di un grande livello di guerriglia urbana e di intensità di scontri”.

“Eravamo una marea di persone, ma veramente una marea di persone. Tu non vedevi l’inizio e la fine. Quindi chiaramente una massa, una massa così enorme diventa pericolosissima per l’individuo, no?”. “C’era questo clima di insicurezza totale. E lì mi ricordo che, la sera dopo che è morto Carlo Giuliani, eravamo tutti in campeggio a decidere cosa fare. Si diceva, torniamo a casa, no? Siamo disposti a star qua a farci sparare addosso ai poliziotti, no? E poi abbiamo deciso tutti assieme di restare. Quella è stata una decisione possibile perché eravamo un gruppo e quindi abbiamo fatto tutte le manifestazioni vicini, uno agli altri, sapendo di poter contare uno sull’altro”.

“Quando hanno iniziato a buttarci lacrimogeni dall’alto, ho veramente pensato qui ci moriamo in tanti. La cosa che ci ha salvati è stata proprio la pratica del coordinarsi e fare delle lunghe file di gente che si tiene sottobraccio. Ed è stato solo questo che ci ha permesso di uscire incolumi da quella situazione lì. Ricordo appunto queste camionette dei carabinieri che ci venivano addosso a tutta velocità. Quindi a un certo punto abbiamo iniziato tutti e tutte, indistintamente, a buttare tutto quello che trovavamo, cassonetti, bidoni, qualsiasi cosa trovavamo, la buttavamo in mezzo alla strada, proprio per riuscire a rallentarli un po’ e poterci salvare”.

“L’enormità delle emozioni provate, sapendo che era uno dei compagni della manifestazione e sapendo che potevi essere tu al suo posto, perché con quello che è successo a Genova, in tantissime vie e in tantissime piazze, con decine di migliaia di persone coinvolte attaccate dalla polizia, potevi veramente essere tu”.

“Mi ricordo che abbiamo passato praticamente tutto il tempo a scappare, coscienti del fatto che se ti prendevano, te ne davano una sfracca come minimo, e rischiavi pure la vita. La sensazione era veramente tanto questa”.

“Di Genova, francamente, quello che mi rimane in mente è la paura. Se dovessi riassumere, non tanto l’essere in tanti, la bellezza, la leggerezza, no”. “La prima volta che durante la manifestazione c’è stato un morto per quanto riguarda la mia esperienza e questo innesca una serie di riflessioni sulla lotta, sui metodi e sulla rabbia rispetto alla repressione, su cosa si doveva fare il giorno dopo. Il giorno dopo era sabato, era la manifestazione che ha coinvolto 300.000 persone. Una roba enorme”. Eravamo tutti stanchissimi e sovraccarichi emotivamente, ma non capivamo se valeva la pena ancora stare lì. C’era gente ancora nelle carceri di Bolzaneto, cioè dovevamo andare a fare altre manifestazioni di protesta per aiutarli”.

“Anche perché poi noi, finita l’ultima grossa manifestazione, siamo andati via da Genova. Non siamo rientrati subito in Ticino, ma in diversi ci siamo fermati… E poi ci ha chiamato una ragazza che era dentro nello stabile in faccia alla scuola Diaz, e che quindi stava vedendo in diretta quello che stava succedendo. Quindi anche lì è ritornato un livello di panico e di terrore altissimo, con anche la richiesta di ‘venite a prendermi’. E sapere che lasci qualcuno lì… Così, intanto accendi la tele, cominci a vedere le immagini di quelli che vengono portati via, così… Era fuori di testa. In più, perché anche nella scuola Diaz c’erano alcuni svizzeri che sono passati dal Molino quando sono rientrati. Cioè vederli massacrati, erano stati massacrati. E questa roba lì era…”.

“Stanno cercando di sfondare la nostra porta al secondo piano. Mani alzate e resistenza passiva. Ragazzi, uno sgombero in diretta. Radio GAP sta per essere sgomberata”. “Calma, seduti e mani alzate!”. “Bene, 40 persone all’interno della diretta, dello studio diretta di Radio GAP. Siamo tutti con le mani alzate, aspettiamo la celere che sta sfondando la porta del nostro secondo piano. A secondi sarà aperta, ragazzi, è un momento veramente difficile, ecco sentiamo anche il rumore”. “Calma. Non ci devono fare niente, non abbiamo fatto nulla. Stiamo semplicemente facendo informazione, abbiamo continuato a farla. Continueremo a denunciare quello che sta facendo questo Stato criminale e questa polizia fascista che è entrata…”. “Eccoli, sono entrati, sono entrati i poliziotti in radio”. “Manganelli in mano e caschi…”.

“Una storia che mi è rimasta sempre impressa è il racconto di un gruppetto di persone già anziane all’epoca, che erano partite da qua, dal Canton Ticino, che ci raccontano di come loro avevano assistito, praticamente immobilizzati dal terrore, guardare questo ragazzo che veniva pestato brutalmente a terra da questi criminali”.

“A Genova si è veramente assistito a una parte delle forze dell’ordine che erano veramente dichiaratamente fasciste, cioè inneggiavano al Duce e alle persone che erano a Bolzaneto, le costringevano, per umiliarle, a inneggiare al Duce, perché se no venivano picchiate, denudate, umiliate in tantissimi modi. È una di quelle cose che non ti scordi più”. “Non lo so, non ho ancora spiegazioni per tutto quello che è successo. E per come poi, tra l’altro, anche lì sono state accusate una serie di persone del Movimento di associazione a delinquere. Insomma, quelli del Movimento sono stati condannati al carcere, eccetera. E le responsabilità politiche? Non gli è stato fatto pagare il giusto, ecco. Anche lì, francamente, che sia stato possibile fare qualcosa come alla Diaz e che anche lì tutta la popolazione non sia uscita quella stessa sera dalle case a dire dimettetevi tutti, perché, sia quel che sia, non potete massacrare le persone così. Bizzarro”.

“Genova sicuramente è stato l’apice repressivo. La volontà di massacrare, di far paura, ecco, terroristico. L’organizzazione statale repressiva è stata terroristica, nel senso che voleva incutere il terrore nelle persone, sia andando a torturare, sia andando a prendere negli ospedali, sia impedendo le vie di fuga che normalmente in ogni corteo sono garantite, attaccando inermi… Lì c’è stata una chiara volontà dal potere di terrorizzare la gente”.

“Beh, c’è stato sicuramente Genova, dove c’è stato un morto, ci sono stati gli episodi di Göteborg in cui la polizia ha sparato. Le mattanze di Napoli, che era un laboratorio prima di Genova. Davos… Davos ha comunque, quegli anni attorno agli anni 2000, partivamo da Lugano con quasi dieci pullman verso Davos”. “È chiaro che questo in qualche maniera ha inquinato il capitale e il sistema degli Stati e del capitale”. “L’apparato repressivo, dopo essersi fatto sorprendere nei primi anni, ha Seattle o da noi a Ginevra, poi a Davos, si è affinato, è diventato potente, molto organizzato, molto violento. Ha sicuramente contribuito a indebolire il Movimento. Molte persone avevano paura a scendere per strada a un certo, anche perché poi non vedevi l’utilità di andare a prendere tante legnate in quella che era diventata un po’… eh, un appuntamento scontato quasi. Dopodiché, era anche il 2001. Due mesi dopo succedono le Torri Gemelle. Apriti cielo. Lì la logica di guerra, o con noi o contro di noi, o con gli americani o con il sistema capitalista e democratico o con Osama Bin Laden, è stato sicuramente l’altro elemento che ha indebolito ancor di più. Nel nome della sicurezza dopo le Torri Gemelle, la capacità repressiva, la capacità di schedatura, di tutto quello che era dell’apparato statale era impressionante”.

“Ci siamo ritrovati in una situazione in cui contestare rischiava di essere associato al terrorismo”.

“C’è stato l’11 settembre, che anche quello è stato lo spartiacque, fondamentalmente, lo viviamo ancora adesso, che ha completamente creato delle rotture. E quindi, tutto questo fermento, non so se dobbiamo analizzare anche l’11 settembre a livello dell’impatto che ha avuto sulla diffusione di un sistema securitario, escludente, legata a islamofobia e quindi alla politica di diffusione del terrore, in cui entra anche la questione dell’autodeterminazione. Perché poi diventa il sistema occidentale che impone, come gli altri Stati eventualmente si possono o devono autodeterminarsi, come si deve vivere, come si deve consumare, come si deve lavorare. Come fondamentalmente si deve stare al mondo. Per me quello ha creato questa rottura di devi fare così, devi essere così, devi avere un certo tipo di tratti somatici, di lineamenti, di maniera di vestirti. Se non lo assumi, sei problematico. Sei problematico e ti indico e ne subisci le conseguenze”.

Sulle giornate di Genova di cose da dire ce ne sarebbero davvero tante. Vi posso solo suggerire di ascoltare il podcast ‘Limoni’ di Annalisa Camilli per Internazionale, progetto a cui Macerie in qualche modo si ispira. Le ripercussioni della repressione e dello smembramento di questo Movimento si sentiranno anche in Svizzera e avranno conseguenze sul mondo dell’autogestione che arrivano fino ad oggi. Ne riparleremo.

“Il calo del Movimento non è avvenuto da un giorno all’altro, no? Il Molino era sempre in quella condizione di precarietà, perché da una parte lavoravamo a livello internazionale, ma dall’altra parte c’era sempre chi ci riportava sull’aspetto locale, sostanzialmente. Ma perché comunque il Molino era in una posizione precaria. Non era in uno stabile definitivo, per cui da qualche parte c’era sempre un dover lavorare su qualcos’altro. E piano piano si è perso un po’ l’aspetto internazionale, rimaneva sempre l’aspetto locale, anche perché poi dal Maglio venimmo sgomberati”.

“Ecco la dimostrazione, voluta appunto per ricordare i cinque anni di autogestione. Dimostrazione pacifica, che però aveva anche degli altri significati politici”. “Certo, c’è uno striscione, è proprio alla testa del corteo che può rendere l’idea del significato anche tra virgolette politico di questa manifestazione, dice: ‘Né con la vostra pace, né con la vostra guerra, contro tutti i potenti della terra’. Quindi un no deciso all’intervento americano in Afghanistan, ma un no esteso in generale alle regole della società dalle quali gli autonomi si chiamano fuori” (Reportage).

Ma adesso pensi che eravate ingenui ad immaginare che le cose sarebbero cambiate? “No, penso di no. Penso che se non si ha, se non si dà valore all’utopia, non come una scemenza, ma l’utopia come motore per andare avanti, beh, allora si sta fermi e basta. In tutte le epoche storiche, in tutti i movimenti, in tutto quello che ha cercato di cambiare qualcosa, c’era una dose di utopia. A volte porta dei risultati, a volte non ne porta. Dopo è vero, magari non è cambiato niente, però credo anche che qualcosa si semini. E anche se non è servito, secondo me, non potevamo esimerci dal farlo”.

Episodio 6: L’alba della vergogna

Introduzione

“Ma intanto il centro sociale è sicuramente un’antenna, un’antenna che trasmette e che riceve. Questa trasmissione, ricezione, avviene su frequenze diverse dagli FM classici che usano tutti al giorno oggi e ci sono delle frequenze più basse o più alte che intercettano dei bisogni sociali. Si verrà in contatto con delle persone che hanno dei bisogni, ma anche magari dei disagi. C’era qualcuno che diceva che il grado di civiltà di una società viene misurata dal benessere o dalla dignità dell’ultimo dei suoi elementi. Quella è la misura di una società. Non è la misura di quanto più ricco o della media della ricchezza. E io credo che il Molino abbia sempre avuto l’idea di essere dalla parte degli ultimi, di essere dalla parte dei più deboli, sia a livello della ricerca dei loro diritti, sia nella pratica quotidiana di poter cercare di dare delle risposte concrete a quelle persone che hanno una necessità che non è sufficientemente rispettata, insomma, o che non c’è una risposta sufficiente per poterlo considerare dignitosa”.

L’attività del Molino al Maglio di Canobbio, nonostante la precarietà della sede provvisoria messa a disposizione dalle autorità cantonali, è in piena espansione. Proposte culturali, politiche e solidali. Dopo cinque anni di permanenza al Maglio, però, gli attacchi politici contro questa realtà si fanno sempre più pressanti.

Questo è il 6º episodio di Macerie e si intitola ‘L’alba della vergogna’.

Gli ecuadoriani

“Allora tanti, tanti anni fa, alcuni ragazzi del Molino, alcuni compagni, facevano le castagne ed eravamo andati alla Sagra dell’Uva a Mendrisio e io mi ero messa con loro e facevo il vin brûlé. Lì alla la Sagra dell’Uva, ho visto per la prima volta tutti questi ecuadoriani che facevano il mercatino. Li avevo già probabilmente intravisti davanti alle Migros, eccetera eccetera. E siccome noi portavamo tanto in avanti il collettivo zapatista e sentivamo forte la causa verso i popoli indigeni, abbiamo cominciato a chiacchierare con loro e ho detto ‘ma avete un posto dove dormire?’, ‘No’, ‘E come dormite?’, ‘Noi dormiamo in macchina’. E ho detto ‘dai, venite su da noi a dormire’ e probabilmente non mi rendevo conto che invitarne uno vuol dire inventarne cento. E così sono arrivati. Prima è arrivata questa famiglia e poi man mano hanno portato i fratelli, le sorelle, i cugini, gli zii, eccetera, eccetera”. “Gli ecuadoriani non avevano il permesso di stare in Svizzera, non l’avevano perché loro erano ecuadoriani, quindi extra comunitari, e potranno solo accedere come turisti. Poi il loro numero è andato aumentando. Alcuni erano già minorenni non accompagnati. Sto parlando di minorenni di 16 anni, di 17 anni, di 15, che evidentemente da un lato sono già degli uomini o delle donne in Ecuador, ma comunque sono delle persone da proteggere, sono degli adolescenti. E poi in quelle situazioni cominciavano ad esserci anche delle famiglie e neonati anche”.

“La polizia portava sia gli ecuadoriani o la gente problematica tra virgolette o che non aveva un posto, che magari raccattava in giro la portava su. Soprattutto ecuadoriani, però. E arrivavano ogni tanto macchine della polizia con dentro qualcuno, che scaricavano lì, perché dicevano ai tempi non sapevano cosa fare”. “Da un lato questo enorme numero di persone, perché si parlava di decine e decine, e quando sei lì in poche decine te, averne decine e decine, diventa quasi più loro che le persone del Molino. E metteva sotto pressione in qualche modo la struttura del Molino. Si è cominciato a fare docce, lavatrici, ma poi ci si rendeva conto che bisognava… che c’erano comunque dei problemi”.

“Se chiedi a me, io non ho avuto veramente nessun problema. Però poi effettivamente con i compagni non era sempre… prima di tutto perché erano tantissimi, a un certo punto erano più loro di noi. E poi perché comunque non è che partecipavano alla vita del centro sociale. Loro fondamentalmente, il loro scopo era suonare o fare il mercatino per guadagnare soldi da mandare alla famiglia che era rimasta in Ecuador. Loro hanno come scopo primario questo”. “Non è mai stata difficile la convivenza, però chiaramente loro non condividevano gli stessi principi, cioè non erano lì per gli stessi motivi, diciamo… Loro cercavano appunto un punto d’appoggio e basta. Ricordo il tentativo di coinvolgerli nell’Assemblea e quindi hanno preparato delle cene. Suonavano o magari a volte suonavano loro. C’è stato questo tentativo, non è che è poi mai diventato più di questo”.

“Infatti a quell’epoca proprio c’erano delle persone che dicevano ‘ascoltate noi abbiamo bisogno di energie per la lotta’ e gli ecuadoriani ci prendono un sacco di energie per poterli assistere, per poterci dialogare. E c’erano altre persone che dicevano ‘sì, ma la lotta sono gli ecuadoriani, la lotta è aiutare le persone che sono in difficoltà’. Quindi, certo, c’è un livello politico, c’è un livello umano e da qualche parte non era sempre semplice collimare le due cose”. “Dalla volontà di alcune persone è nato il movimento dei Senza Voce, che poi negli anni ha portato la creazione di Casa Astra, che tuttora è una struttura a cui si fa grande riferimento qui in Ticino”.

“Ci sono state molte persone che hanno portato anche, diciamo così, delle famiglie a casa loro a vivere con loro che sono partite dal Molino. Il movimento dei Senza Voce è arrivato a fare 156 auto-denunce dicendo ‘io ho aiutato un ecuadoriano, sono condannabile?’ e alcune persone sono state anche condannate per questo motivo”. “Perché c’è poi stato anche il processo alla Karin. C’erano tante cose che ci avevano anche toccato nel profondo. Comunque, a un certo punto la polizia aveva fatto una grande campagna per mandarli via”. “E ancora adesso il Molino con altri collettivi e in altri modi sta ancora lottando a favore degli ultimi, degli ultimi di questa società, insomma, i migranti”.

La casa-laboratorio Inti

L’attività del Molino al Maglio continua in maniera incessante. Sono centinaia i volantini di attività, concerti, conferenze, spettacoli teatrali proposti che dimostrano la vitalità di quel periodo. Al Maglio si stampa anche un giornale in cui si mescolano questioni politiche a stralci di vita personale della comunità dei Molinari.

“Gli anni del Maglio sono anche gli anni in cui nascono i bambini. Ho ritrovato una vecchia edizione del Giornale del Molino con un articolo ‘Benvenuto Simon’”. “Esattamente, diventavamo genitori, certamente. E ne sono nati tanti, effettivamente. Tant’è che venne aperto anche un asilo, un asilo libertario, casa-laboratorio Inti. Mio figlio Simon, i primi tre mesi di vita li ha vissuti dentro al Maglio”. “La casa-laboratorio Inti diciamo che è nata accostata anche alla questione delle nascite dei bambini, noi diciamo che comunque iniziavamo a diventare dei trentenni, eccetera. ? è stata la prima che è rimasta incinta all’interno di questa esperienza. E inizialmente stavamo cercando anche una casa per poter poi crescere i bambini eccetera, ma non siamo riusciti a trovarla. Ma allo stesso tempo, visto che eravamo in periferia, avevamo anche la necessità di trovare qualcosa in centro. Avevamo trovato una struttura in centro. Inizialmente doveva essere, diciamo, l’avamposto del Molino in città, un locale, un biblio-caffè, un negozietto delle autoproduzioni e del bio equo-solidale”. “E si era cominciato a parlare appunto di cooperativa di lavoro, perché molti di noi non lavoravano a quei tempi o avevano dei lavori molto precari, ok? E quindi si pensava ‘riuniamo le forze e facciamo questa cosa’. Poi era stata identificata questa casa dentro questo quartiere che si chiamava quartiere delle Caragne, ed era in ottimo stato e sono andati parlamentare e alla fine sono riusciti ad avere questo contratto di comodato d’uso, dove praticamente noi potevamo avere la casa senza pagare, facendo tutti i lavori noi, occupandoci noi, pagando dopo le spese, la nafta, le spese di elettricità, eccetera eccetera. Ma non dovevamo pagare un vero e proprio affitto, ma uscire quel giorno che sarebbe stato venduto tutto il quartiere alle Caragne. Abbiamo lavorato tantissimo per rimettere a posto questa casa e poi, però, la parte bar, eccetera eccetera non si riusciva… Mi sembra che a livello di legge non riuscivamo a mettere in pratica questa parte. Siamo riusciti a mettere in piedi questo asilo nido libertario”. “Vedere come i bambini potevano effettivamente in maniera libera, gestire il proprio tempo, stare insieme in un certo modo, con gli adulti che c’erano in caso di necessità, ma che cercavano di intervenire il meno possibile”.

“Al secondo piano avevamo un ufficio che poi è stato anche tanto utilizzato da Indymedia e dal centro sociale, quando sono stati sgomberati. E c’era una grande sala che hanno utilizzato veramente di tutti e di più. All’ultimo piano, nella mansarda, è stato un posto dove alcune donne in difficoltà hanno potuto abitare”.

“È finita tragica, perché… diciamo, che sono riusciti a trovare un acquirente, che però l’acquirente era: Tiriamo giù tutto il quartiere alle Caragne e costruiamo dei palazzi”.

“Tutto finito? No. Ora è subentrato un altro collettivo, quello del Paguro, dal nome di un granchio che occupa le conchiglie lasciate vuote da altri animali. Un’occupazione di una ventina di persone che vogliono protestare contro quella che viene definita ‘l’impossibilità di portare avanti progetti educativi e culturali alternativi, ma non solo’”. “La ragione dell’occupazione è, appunto, un’azione simbolica per dimostrare la nostra contrarietà a tutto quello che è la speculazione edilizia che c’è qua su Lugano”. “Il primo termine di demolizione è scaduto due giorni fa. Per ora i proprietari non intervengono. Lo stabile dovrebbe essere abbattuto entro il 15 settembre” (Reportage).

“Noi abbiamo raccolto le firme perché nel frattempo la casa era diventata un punto di riferimento. C’erano diverse persone che venivano, vi partecipavano. Non eravamo un problema. Malgrado tutto, abbiamo tirato tutto il possibile veramente, finché sono proprio venuti con le ruspe e siamo usciti forse il giorno prima proprio”.

Oggi quindi alle Caragne il panorama è molto cambiato. Al posto della bella villetta che ospitava la casa-laboratorio Inti, c’è questo enorme palazzone di sei piani. Il quartiere è stato abbattuto alla fine dell’estate del 2004 e… in giardino c’era una bellissima magnolia, ma è stata tagliata anche questa.

I soldi del Molino

Ma torniamo all’autunno del 2001, quando fra Molino e Comune di Canobbio si viveva una certa tensione.

“Il centro sociale era all’interno di una valle e quindi significa che faceva rimbombare la musica credo. Insomma, c’era un ritorno di suono che faceva sì che sopra… la popolazione al di sopra del centro sociale venisse disturbata”.

“Abbiamo dei bambini che non riescono a dormire, fino alle 5 del mattino delle volte. Noi sentiamo non musica, ma sentiamo specialmente i bassi ed è impossibile dormire. Si svegliano i bambini. E questo tutti i weekend” (Reportage).

“Ricordo che c’era uno scontento che se ne parlava. Probabilmente in quel momento della mia vita ero così occupata a portare avanti il centro sociale che era come se li trovavo… Dicevo, ma come fai a lamentarti per un centro sociale? Non so… Probabilmente non gli davo il giusto peso”.

“Ho sentito anche quelli della scuola dell’infanzia che hanno paura ad andare a fare il percorso vita perché ci sono cani che sono lasciati liberi o magari hanno paura di trovare qualche cosa non bella…”.

Quando eravamo al Maglio abbiamo allargato, tra virgolette, la struttura. Abbiamo preso anche il capannone, quello grande grande che era fino ad allora occupato da roba, da macchine vecchie, eccetera”. “Abbiamo asfaltato, cementato il fondo perché erano degli viali di bocce. Abbiamo messo giù le reti, cementato, abbiamo messo l’isolazione sul tetto, perché era un capannone di lamiera. E abbiamo finalmente fatto la nostra sala concerti, che è la più grande che abbiamo mai avuto. Ci stavano 1500 persone”.

“Infatti è diventata una delle sale più belle del Cantone. E quindi lì chiaramente c’era un bel niente di che, eccetera”.

“È vero che tante delle attività venivano poi svolte anche per riuscire poi a fare politica, quindi anche fare i concerti, è vero, ci permetteva di avere lì un po’ di soldi che permettevano di stampare i volantini, piuttosto che di organizzare le trasferte per andare a fare una manifestazione. Insomma, c’erano tutte queste cose”.

“Il Molino è sempre stato una fabbrica di soldi. Facevamo prezzi popolari. La birra a 3 franchi, comunque, erano migliaia e migliaia di birre che vendevi. Il fine non era guadagnarli, era averceli per poterli usare”. “Ma non ho mai sentito qualcuno che dicesse ‘facciamo la birra a un franco e mezzo’. Lo scopo non era ubriacare migliaia di giovani, che comunque un po’ si ubriacavano, però se si abbassa il prezzo, è ancora più un incentivo a bere. Non lo vedo conflittuale con l’idea di Molino, il fatto di avere un’entrata, di avere dei soldi”.

“Erano tanti soldi che venivano tutti reinvestiti nella struttura, nelle attività politiche, nelle attività di solidarietà”. “E in più, ci tengo a sottolinearlo, per pagare le bollette dell’acqua e dell’elettricità che abbiamo sempre pagato, al contrario di chi nega questo fatto”.

Il dialogo tra autogestione e autorità

“L’esperienza di autogestione ha dato dei risultati? In cinque anni, quali obiettivi si sono raggiunti? L’Ordine pubblico e il conseguente rispetto delle regole non può e non deve essere solo un fatto tecnico”.

“Ho sempre avuto l’impressione di essere qui, nel piccolo Canton Ticino, dove la gente ci prendeva per quattro figli di papà capricciosi, perché in realtà c’era appunto una misconoscenza di questo tipo di realtà e io mi dicevo ‘cavolicchio, basta mettere il naso fuori dai confini di questo Cantone per vedere che in tanti posti sono realtà esistenti, riconosciute anche con una loro legittimità’”.

“Al Maglio, lo spazio della disobbedienza, della disobbedienza civile in modo particolare, è oggi enorme. Di fatto, la gestione attuale del centro si squalifica da sé, nascondendosi dietro tutta una bella serie di impaludamenti, che lasciano però trasparire una frustrazione di alcuni che lì, proprio al Maglio, trovano almeno di che dormire o di passare le giornate”.

“In questi anni ci fu la commissione cerca, la commissione trova, la commissione mista, c’è un’altra commissione, la 4ª addirittura, che non ricordo neanche più il nome in cui anch’io partecipai direttamente a questi incontri, che sostanzialmente non portavano poi mai a niente”.

“Ma perché di fatto il tentativo da parte delle autorità, non riconoscendo questa esperienza in quanto tale, era sempre quello di far rispettare le regole. Quindi quelle di un locale che deve avere un gestore e sottostare a tutta una serie di regole, eccetera. Questo è un punto cruciale per cui, secondo me, tutta una serie di persone che non hanno mai capito o riconosciuto o voluto conoscere meglio l’autogestione”. “Al Maglio c’è stata la commissione cerca, la commissione trova e la commissione mista perché la commissione cerca, ha cercato ma non ha trovato la soluzione definitiva. La commissione trova, non ha trovato nulla. La commissione mista, idem. Stava andando avanti, quando poi siamo stati sgomberati”. “Però, ‘sti gruppi erano fini a se stessi, servivano solo per tenere buoni un po’ Canobbio e un po’ la popolazione per chi era contrario, però era degli esercizi alibi”.

“Era interessante, dall’interno, osservare il funzionamento di questa decantata rappresentatività, non avevano neanche idea di cosa si stesse parlando. Erano lì per i gettoni di presenza, non hanno mai dato un contributo, non gliene poteva fregare di meno, niente”. “Io mi ricordo quello, che noi andavamo con tutti i buoni propositi di questo mondo e abbiamo anche sentito delle proposte surreali. Mettiamo un capannone in cima al Monte Ceneri, vediamo il capannone. Cioè erano improponibili quando noi avevamo avanzato delle proposte dal deposito ACT, alla Termica. Non so perché la responsabilità viene sempre messa sul Molino e mai sulle autorità e la domanda non è ‘Signori autorità, come avete fatto dal ‘96 a oggi, a non aver trovato un posto definitivo per il centro sociale?’. Cioè, è questa domanda non un’altra”.

Fra le carte di quel periodo si trova l’elemento forse più interessante nato da questa grande intensità di dialogo fra autogestione e le autorità, ovvero il rapporto al Consiglio di Stato della cosiddetta Commissione Martinoni.

È abbastanza interessante perché nelle sue conclusioni si sancisce che la creazione di centri socio-culturali risponde a un bisogno reale. La sua realizzazione va quindi considerata positivamente. Più avanti si legge che l’impegno dell’ente pubblico si può concretizzare con la messa a disposizione gratuita delle infrastrutture necessarie.

“Va benissimo l’enunciazione del principio, se poi però non è seguito da fatti concreti, serve a poco”. “Anche lì, quando si parla di illegalità, torniamo lì, c’è una commissione che stabilisce che l’autogestione ha diritto di esistere. Ci sono state delle commissioni per cercare una soluzione. Cioè, il problema dove è che sta? Davvero nel Molino o da qualche altra parte?”.

Lo sgombero del Maglio

“Una petizione popolare promossa da un gruppo di abitanti del comune di Canobbio denuncia l’illegalità della struttura che oramai da quattro anni è nelle mani degli autonomi. Quattro anni di una autogestione operata nella completa inosservanza delle leggi e delle norme in vigore” (Reportage).

Ecco, e com’è che si è arrivati allo sgombero del Maglio? “Sempre per la pressione, se non mi sbaglio, la pressione di Cannobio che era super scassato, il Comune, le autorità comunali eccetera. Poi a questi livelli di solito iniziano, non so, i ricatti, il battage sui giornali, insomma. Un’esasperazione totale, come se fosse veramente cioè la fine del mondo”. “Il rumore, i concerti che iniziano dalla sera alle dieci sino alla mattina alle sei. Chiaramente, per gli abitanti qua di Canobbio, non si dorme, non c’è tranquillità. E seconda cosa, quello del rispetto e della… come posso dirle, il perché noi, come cittadini privati, non possiamo fare quello che loro fanno”. “Il pretesto del rumore, secondo noi, è un po’ un pretesto. Penso che siano cambiate le maggioranze nei calcoli elettorali… notoriamente la Pesenti aveva anche ambizioni nazionali, ha voluto dare un segnale”. “Al Consiglio di Stato, tra l’altro, allora presieduto dalla Pesenti, socialista, che, essendo suo lo stabile ha firmato, ha decretato lo sgombero”.

“Potrebbe essere sgomberato già questa notte, oppure all’inizio di settimana prossima. Quello che è certo è che il Molino di Cannobio, se non le ore, i giorni contati” (Reportage).

“Alla fine mi ricordo che ci avevano dato questo ultimatum e ci il compleanno di una compagna. Non è tanto per il compleanno, ma era la questione ‘tu mi vieti di fare una cosa’ e noi non volevamo farci vietare le cose perché noi portavamo avanti delle cose che, dal nostro punto di vista, erano molto più importanti, no?”. “Io ho pensato di fare la festa del mio compleanno il giorno che si pensava di fare lo sgombero. Ma perché pensavo, se facciamo il compleanno lì, arriva tanta gente, non ci sgomberano. Beh, è arrivata tanta gente, però ci hanno sgomberato lo stesso”.

“Comunque noi lo sapevamo. Erano stati avvisati dello sgombero. Però non abbiamo.. Non lo so, non l’abbiamo proprio presa sul serissimo. Abbiamo pensato che avessimo ancora più tempo, eccetera. E quindi non è che abbiamo approntato chissà che difesa, chissà che piano B”. “Arrivarono alle 6 del mattino, in tenuta antisommossa, in numerosi furgoni”. “Eravamo comunque ancora svegli quando sono arrivati e qualcuno ha gridato ‘arrivano, arrivano’. E c’erano appunto tutti questi RoboCop che avanzavano nel piazzale fuori. E allora lì si è iniziato a puntellare, insomma, barricare la porta, eccetera”. “Non ci fu violenza. Entrarono, entrarono in maniera molto energica, questo sì, ma non ci fu violenza”. “Mi ricordo che quando hanno comunque sfondato la porta, siamo andati su nelle stanze e ci siamo chiusi dentro, nelle stanze. Hanno iniziato a tirar calci, pugni alle porte. ‘Polizia e polizia’. Hanno sfondato perché nessuno apriva. Ci hanno messi tutti fuori nel corridoio contro il muro”. “Niente, sarebbe andata così. Non avevamo margine per fare qualcos’altro. Avevamo deciso che così ci saremmo comportati. Lo sapevamo che sarebbe successo, ma avevamo deciso che ci saremmo comportati così, perché altro non c’era da fare”. “E niente dopo c’erano le camionette fuori e poi, resistenza passiva, ci hanno portato fuori. Ci hanno caricato sulle camionette”. “Ci portarono via tutti. Ogni gruppo venne portato nelle sedi della Protezione civile delle Valli di Lugano”. “Dove, niente, ci hanno schedato. Non è successo assolutamente niente di rilevante se non tenerci lontani dal Molino per un po’ di tempo”. “Al Maglio hanno cominciato a blindarlo, nel senso, hanno costruito dei… hanno murato le finestre. Hanno fatto queste cose qua. Però, fin da subito, ci hanno lasciato tornare là, a prendere delle cose senza grossi problemi”. “Decisamente meno violenta di quella… meno brutale di quello che hanno fatto con il Macello. C’era un rispetto delle cose personali e collettive del Molino che al Macello non si è visto al Macello, non… non c’è stato nulla di questo, anzi”. “Ecco, io mi ricordo che il Molino è stato sgomberato mentre era in corso una commissione per cercare una sede definitiva. Allora lì qual è la credibilità che pensano di avere le autorità nel dire ‘perché non si siedono al tavolo del dialogo’, ‘perché non si impegnano a trovare…’? Quando, voglio dire, sono vent’anni che il Molino si è seduto ai tavoli, a cercare delle soluzioni, eccetera eccetera, e non sono state trovate. E mentre stavamo discutendo, mentre c’era il meeting, seduti tutti a un tavolo, avete sgomberato il Molino al Maglio di Canobbio”.

“Il giorno dello sgombero una donna ecuadoriana mi ha chiamato dicendomi che ci aveva mal di pancia. Loro avevano queste gonne che si legano… Praticamente, mi sono resa conto che era incinta. Ma me ne sono resa conto lì in quel momento. E lei mi dice ‘io non sto partorendo adesso…’. All’inizio ho pensato ‘ok, la facciamo partorire qui al Maglio’”. Il giorno dello sgombero? “Eh, ma non sapevamo che avrebbero sgomberato quella notte. Pensandoci bene, c’è stato un po’ di cosa facciamo, cosa non facciamo. Vabbè, l’accompagno in ospedale. Una volta che sono entrata in ospedale non ho più avuto contatto con nessuno. Quindi io alla mattina, quando Pablo Molino è nato…”. Quindi è stato chiamato Pablo Molino in onore…? “Esatto, alla mamma piaceva Pablo, a me piaceva tantissimo ed è venuto così, spontaneo. Pablo Molino, perché quasi nasceva lì”.

“All’interno del centro la polizia ha trovato una trentina di persone, mentre nei pressi del centro, accampati intende in una casa mai completata, 56 ecuadoriani, tra i quali diverse donne e bambini” (Reportage).

“La prima cosa che ho visto era una macchina piena di bimbe ecuadoriane. Hanno portato via tutti gli ecuadoriani e poi non c’era più nessuno”. “La nostra preoccupazione era quando arrivarono i poliziotti, cosa sarebbe stato di loro e infatti li accompagnarono alla ramina verde, al confine verde… I poliziotti dicevano ‘Bom, adesso andate di là, in Italia e arrangiatevi’”.

“Nel frattempo, quando noi eravamo all’interno della Protezione Civile, ci arrivavano notizie di studenti dei licei che si erano ritrovati in piazza Riforma a manifestare. Questo ci fece molto piacere, ci sollevò molto perché sapevamo di non essere soli”.

“Era stato bello perché c’era stata subito una reazione di qualcuno. Ed era anche una reazione d’amore, non lo so, di affetto verso questo posto”. “Ecco queste sono cose che ti fanno bene al cuore che ti dici, beh, la solidarietà ancora esiste”.

“La manifestazione continua e ritorna in piazza Dante. Nel frattempo arrivano anche i Molinari, rilasciati dalla polizia”. “Se rispondevamo a un bisogno e loro hanno tolto una struttura, il bisogno rimane. Quindi la prossima struttura arriverà, la riconquisteremo, se sarà necessario. Ma l’autogestione va avanti e lo dimostrano le persone che stanno continuando ad arrivare qui” (Reportage).

“Io penso che quello che è successo quando ci hanno sgomberato, ed è stato soprattutto le donne del Molino lì, non abbiamo mai considerato che non ci avrebbero dato un altro posto. Cioè, dentro di noi, era come se lo sapessimo, ma perché era giusto, era giusto, quindi ce lo dovevano ridare”.

Episodio 7: Un macello per Natale

Introduzione

“Alle 06:15 in punto, un’ottantina di agenti della polizia cantonale è giunta al Maglio a bordo di una decina di furgoni. Subito alcuni di questi sono entrati nel centro alla ricerca degli occupanti, altri hanno circondato lo stabile. All’interno del centro la polizia ha trovato una trentina di persone, mentre nei pressi del centro accampati in una casa mai completata, 56 ecuadoriani, tra i quali diverse donne e bambini” (Reportage).

Questa mattina ha nevicato. Mi incammino sul sentiero lungo il fiume che porta al Piano della Stampa. Arrivo al Maglio di Canobbio insieme al primo sole. Sono passati vent’anni, ma qui non è cambiato nulla. Ci sono ancora le finestre murate, le persiane inchiodate e le griglie per evitare l’accesso.

Solo nella grande sala concerti si muove qualcosa. Oggi è adibita a palestra per fitness e combattimento. La fabbrica dei Campioni c’è scritto. Questo edificio di proprietà pubblica, dopo lo sgombero dell’ottobre 2002, è rimasto inutilizzato, vuoto per vent’anni. Sicuramente uno spreco, ma forse anche una dichiarazione di intenti. Piuttosto che mettere a disposizione degli spazi per l’autogestione, preferiamo tenerli vuoti.

Questo è il 7º episodio di Macerie, in cui ci concentreremo sui mesi successivi allo sgombero del Maglio di Canobbio e sull’intensa presenza in piazza che ha portato all’ottenimento dell’ex-Macello come sede provvisoria per l’autogestione. Si intitola ‘Un macello per Natale’.

Le manifestazioni dopo lo sgombero del Maglio

“Il problema è a monte. Il problema è stato prima. Il problema è stato quello di una classe politica che ha voluto nascondere sotto un tappeto questo problema dell’autogestione perché non gli piaceva, non si è accorto che il problema usciva dal tappeto e invadeva le strade. Adesso invaderà davvero le strade.

“Ed è molto importante che tutti partecipino a questa nostra iniziativa affinché possiamo, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane al più tardi, ottenere di nuovo una struttura nostra, da gestire autonomamente”.

“E lì, fu chiaro fin da subito il concetto che il Molino esiste anche al di là delle quattro mura, perché è l’idea che ci accomuna, è l’idea che ci deve poter portare avanti. Quindi organizzammo, fin da subito, le attività dove? In centro, nelle piazze di Lugano. Quindi portammo teatri, presentazioni di libri, portammo bar, concerti. Tutto quello che in realtà facevamo all’interno del Maglio, noi lo portammo nelle piazze”.

“Quindi abbiamo fatto delle proiezioni video in città, abbiamo fatto dei teatri, abbiamo fatto delle mostre, abbiamo fatto tutto quello che facevamo al Molino. Ma un numero spropositato di iniziative in quei due mesi ci sono state. Eravamo una sera sì, una sera, eravamo in città”.

“Era assolutamente un modo di far pressione. Pensavate che il centro sociale vi desse fastidio? Vediamo adesso se vi diamo fastidio. Era l’occasione anche di farsi conoscere alla popolazione, dopo anche quell’esilio, di essere andati al Maglio lontano dal centro città. Ogni volta che succede un fatto del genere, si innesca una reazione, come direbbe De André, ostinata e contraria, che in realtà è un propulsore di energie e quindi c’è stata una spinta. Nell’arco di due sabati ci sono state due manifestazioni di migliaia di persone”.

“È subito apparso chiaro che i manifestanti erano sicuramente più di 1000, forse 1500. Accompagnati da canti, denunce contro l’intervento della polizia al Maglio e slogan, soprattutto contro Patrizia Presenti e Giorgio Giudici, gli autogestiti hanno attraversato Loreto scortati dalla polizia, per poi svoltare su via Adamini verso il lungolago. Qui hanno avanzato la loro proposta alle autorità”. “La soluzione, come abbiamo annunciato, è quella della ACT, l’ex-azienda dei trasporti luganesi, che adesso si è trasferita altrove. Quindi, per diverse ragioni: il posto è libero da subito, risponde alle nostre esigenze perché è sul tessuto urbano, è appena limite, è servita dai mezzi pubblici”. “Poi non da fastidio”. “Non da fastidio, perché comunque in una zona dove, tra le partite di calcio e di hockey si fa un casino della madonna, e comunque nessuno reclama per questo” (Reportage).

“O anche le manifestazioni che sono scaturite dallo sgombero. Ricordo come c’è stato veramente un sollevamento di tutti i commercianti del centro di Lugano per la seconda manifestazione che lo ha attraversato di sabato. Di quei mesi, ho un’immagine di un Giorgio Giudici con la testa fra le mani. Ecco, veramente… questa era l’impressione. Lo si è visto veramente dimesso, veramente un po’ in difficoltà di fronte a questa cosa”.

“Il municipio di Lugano si sentiva vittima della situazione perché eravamo stati sgomberati da una struttura che era situata sul territorio di Canobbio. Ordine tra l’altro firmato da una Patrizia Pesenti nel Partito Socialista”. “Dopo lo sgombero, erano nati, mi ricordo, almeno due gruppi di lavoro, anzi, forse addirittura tre gruppi di lavoro. Uno che si concentrava sulle attività da portare per rivendicare il fatto di avere una nuova situazione, una nuova struttura. C’era un gruppo che si occupava di portare avanti le trattative con il municipio, con il Cantone eccetera. E c’era un altro gruppo che si è occupato invece di valutare le strutture da occupare eventualmente. Naturalmente, poi a quel punto, avevamo capito che era meglio non dirle le strutture da occupare, visto che ogni volta che avevamo indicato delle strutture, immancabilmente queste strutture erano state abbattute e quindi a quel punto lì non dicevamo più nulla”.

“Sì, penso che nella nostra lista avevamo almeno, ma decine e decine, ce n’erano forse una trentina, anche di più di strutture. Ce n’erano parecchie negli anni ‘90, nel luganese, di strutture vuote che potevano funzionare bene. Oggi come oggi, invece, ce n’è quasi più”. “Nonostante avessimo individuato gli stabili, nonostante eravamo anche abbastanza forti numericamente e anche con un sostegno popolare, la manifestazione dopo sgombero eravamo ancora 1500-2000 persone di nuovo. Avevamo scelto di rimanere nelle strade e non occupare uno stabile. Questa era la nostra scelta perché, dicevamo, non volevamo ricominciare il teatrino ‘occupo, sgombero,. Occupo, sgombero’,con poi tutte le relative condanne penali che seguono in tutte queste… fastidi insomma. Noi volevamo il riconoscimento dell’autogestione a Lugano”.

“Sono passate quasi quattro settimane dallo sgombero del Maglio. Questa è la prima riunione del gruppo di lavoro appositamente costituito. Nonostante la cordialità, l’incontro non inizia sotto i migliori auspici. Per il governo, c’è il cancelliere dello Stato Giampiero Gianella. Gli autogestiti avevano contestato la scelta e chiesto invece la presenza di un membro del governo”.

“Alla fine, Giudici decide di avviare un dialogo e noi lo accettiamo perché lui aveva una proposta concreta da farci”. “Eravamo intorno, appunto, agli inizi di dicembre. Giudici ci fa sapere che è disposto a darci il Macello. La cosa si regolava con i dettagli, però andava in porto. Ci dice però, ‘ho scoperto che volete fare una manifestazione contro l’inaugurazione del Casinò di Lugano’, che sarebbe avvenuta appunto nei giorni successivi. E noi rispondiamo ‘sai una cosa? Tienitelo il Macello, noi la manifestazione la facciamo lo stesso contro il casinò. Noi non vogliamo una città Montecarlo e quindi lo esprimiamo. Non siamo disposti a barattare una sede per il diritto a manifestare. Così facciamo la manifestazione, la facciamo, Giudici si infuria ‘non avrete mai il Macello’. Niente da fare”.

“Noi non siamo mai negati come interlocutori, non avevamo problemi. Noi ne volevamo discutere anche con la polizia, quando dovevamo fare i cortei. Annunciavamo i cortei, non è che chiedevamo le autorizzazioni, ma poi ci chiedevano di andare a dialogare con loro per poter trovare un accordo di minima sul tipo di tragitto da fare. C’erano sempre dei contatti con il municipio di Lugano. Se tu lasci un minimo di porta aperta, una sorta di dialogo, devi mettere in conto anche che ci possono essere dei compromessi da qualche parte. Lì non era tanto il periodo dei compromessi, perché naturalmente dopo lo sgombero, eravamo molto arrabbiati.

“L’accordo è sfumato perché gli autonomi, secondo l’esecutivo luganese e il Consiglio di Stato, volevano organizzare una manifestazione non autorizzata domani contro l’apertura del nuovo casinò cittadino. Sul Macello le autorità erano disposte ad accordarsi con i Molinari, ma in un comunicato giunto stasera dicono di aver deciso di rimandare i colloqui, essendo venute meno delle premesse di fiducia. Gli autogestiti avrebbero poi abbandonato il tavolo delle trattative” (Reportage).

“Ok, indiciamo una manifestazione il 23 dicembre. A Lugano, durante le festività natalizie, si sa il peso del commercio a Lugano. Insomma, tutti i benpensanti infastiditi da un nuovo corteo Molinaro all’interno alle feste natalizie, dello shopping natalizio”. “Secondo me è stato questo, l’aver usato più strategie al contempo, che ha permesso di arrivare a quel risultato lì. Una strategia di coinvolgimento della popolazione, in modo che potessero vedere anche la bellezza del Molino. Gli aspetti politici, quindi anche le manifestazioni e così, erano anche delle prove di forza numeriche. La comunicazione con i mass-media, che ci permetteva di raggiungere una popolazione molto più ampia di quella che poi partecipava davvero alle nostre attività. E il dialogo con il municipio. In quei mesi non era stata rotta una vetrina, non era stato fatto un danneggiamento. Questo ci ha permesso di arrivare all’ultimo incontro col municipio dicendogli ‘guardate, noi in questi mesi abbiamo comunque dato una direzione al Movimento, abbiamo incanalato rabbia e tutto in qualcosa di costruttivo’. Però anche loro adesso chiedono conto noi e noi non possiamo più vendere fumo. Fino adesso gli abbiamo detto ‘noi stiamo dialogando così’. Adesso noi da qua usciamo e non diamo più… non ci prendiamo più la responsabilità di direzionare l’energia del Movimento. Abbiamo indetto una manifestazione che passerà da Via Nassa, ecco. Però, noi l’abbiamo detto, ma poi lì non potevano più controllare il Movimento. Diciamo, c’è stato chi, e non ero io, si è assunto questa parte qua, di raccontare questa parte qua, e chi ha messo in evidenza il fatto che noi quel giorno lì saremmo usciti e avremmo parlato con i media e avremmo spiegato cosa avevamo fatto noi in tutto quel tempo lì e cosa non avevano fatto loro. E che quindi stava a loro trovare la giustificazione del perché eravamo ancora fermi al palo. Dopo noi lì abbiamo interrotto le discussioni, dopo averle fatte per tre mesi”.

“Lunedì, dopo la riunione del municipio cittadino e del Consiglio comunale, i rappresentanti del Centro sociale autogestito sapranno se i cancelli dell’ex-Macello si apriranno per loro oppure no. Ma se venisse scartata l’ipotesi di questo edificio quale sede provvisoria del centro sociale, ebbene, se la risposta sarà no, i Molinari scenderanno in piazza sabato 21 dicembre per protestare” (Reportage).

L’irruzione al Consiglio comunale e l’ottenimento dell’ex-Macello

“Si può dialogare, ma ognuno mette le sue carte. E poi, se si vuole trovare una soluzione, la si trova. Se non la si vuole, non… non c’è niente da fare, si va avanti allo scontro”. “Siamo andati ai cancelli del Consiglio comunale, che era in riunione di lunedì sera, quella corte del municipio rimbomba bene, abbiamo scoperto. E allora, proprio attaccati al cancello, uno degli slogan che mi piaceva di più era: ‘Questo palazzo non serve a un cazzo’. E l’abbiamo gridato a squarciagola per ore, intanto che il Consiglio comunale andava”.

“Sicuramente i commercianti di Lugano non avrebbero apprezzato che il giorno in cui si fa un’enorme enorme cifra d’affari fosse messo a repentaglio da una manifestazione, che poi si sarebbe conclusa comunque con un Natale di guerriglia. Perché sarebbe diventata anche una cosa di questo genere, sicuramente”. “Giudici chiama: ‘Ok, vi do il Macello’”. E allora Bignasca, Giudici si sono affacciati, sono scesi, e hanno detto ‘vabbè, dai, allora…’. Avevano quella maniera spiccia di fare, come se la città fosse, che cavolo ne so, il loro giardino, soprattutto il Bignasca. Lì, nel corridoio, ma del tipo che forse Bignasca o Giudici ravanasse nella tasca e tirasse fuori le chiavi. Sì, ce le ha date così, quella sera lì. C’è stata praticamente una vera e propria resa da parte del municipio di Lugano, mi vien da dire, perché quasi inaspettatamente è stata offerta la possibilità di insediarsi al Macello. Proprio chiavi in mano, seduta stante. Così vien da dire, una resa”.

“La storia del Molino, il confronto è sempre stata una parte importante. Ai tempi del Maglio, mi ricordo un’Assemblea chilometrica in cui si doveva definire se Bignasca poteva venire a partecipare a un incontro con il Gigio Pedrazzini, in cui diceva ‘no, non deve venire’, ‘sì, però è meglio’. Alla fine si scelse di farli venire, ma di non farli entrare”. “La narrazione delle trattative, degli incontri è varia. Comunque è una storia che ha fatto parte del Molino. Ma l’unica via che ha permesso di raggiungere 25 anni di attività è stata l’occupazione e l’occupazione non è stata regalata da nessuno, è stata l’occupazione reale, le pressioni di piazza, le argomentazioni, la capacità di prenderci gli spazi o di farceli dare”.

“Avevamo impostato una linea di dialogo per cercare di arrivare a una soluzione”. “Una soluzione che trova sullo stesso piano governo e municipio?” “Sì, direi proprio di sì. Insomma, c’è qualche cosa su cui lavorare e lavorare seriamente nelle prossime settimane” (Marco Borradori, reportage).

“Per loro era l’unica possibilità, quella di concedere uno spazio. Io riconosco la capacità di intelligenza e, ‘vabbè, va bene, prendete questo spazio, autogestitevelo e non avete le palle’. Parlo di Giudici, di Bignasca e di Cansani. Non gli do nessun altro merito se non la capacità di visione di riconoscere questo aspetto. E in questo senso Borradori, che conosce perché è stato subito al primo incontro dopo lo sgombero del Maglio, era lui il rappresentante del Consiglio di Stato al posto della Pesenti, che aveva ordinato lo sgombero, perché la Pesenti del partito socialista era incapace di proferire verbo durante gli incontri. Ma figurati se Bignasca può essere considerato un amico dell’autogestione o Giudici può essere considerato un amico dell’autogestione. Sono dei chiari oppositori, hanno saputo unicamente leggere una situazione e dire ‘meglio così’”.

“Insomma, ci venne chiesto per poter accedere al Macello di creare un’associazione, per poter appunto sottoscrivere una convenzione di intenti. Una convenzione che potesse essere firmata sia dal municipio di Lugano che del Cantone e dai rappresentanti del Molino. E quindi noi creammo l’associazione Alba (Addio Lugano bella associazione). Nel quale mettemmo dei punti all’interno della Convenzione che potessero rappresentare il più possibile le esigenze, sia dal punto di vista del Molino, ma sia dal punto di vista del municipio di Lugano”.

“Naturalmente, vennero smussati un po’ gli angoli rispetto alla prima bozza e via dicendo, per arrivare comunque a una convenzione definitiva che firmammo, che rendeva tutti vincolati”.

Nei sei punti della convenzione, firmata il 18 dicembre 2002 da Giorgio Giudici e Patrizia Pesenti e da due rappresentanti dell’associazione Alba, si legge in particolare che le parti si impegnano, alla scadenza della stessa a stipularne una nuova per una sede definitiva o per un’altra sede provvisoria. Questo, in pratica, avrebbe dovuto garantire praticamente in eterno e senza grossi vincoli la possibilità all’autogestione di poter contare su una struttura messa a disposizione gratuitamente e legalmente dalle autorità.

“L’autogestione, di per sé, non può essere mai accettata da un’istituzione. In uno Stato di diritto, in cui ogni minimo centimetro è definito per legge – legale, non legale –, quindi da tutti gli attori deve esserci la comprensione che è così e che quindi ci vuole un bel margine di tolleranza, di interpretazione delle cose. Giudici e Bignasca questo ce lo avevano in chiaro. È chiaro che in delle realtà autogestite – non so Zurigo, Winterthur, Neuchâtel, Bienne – l’autorità trova delle modalità con cui convivere con queste situazioni, perché se tu inquadri tutto in una logica del diritto, della legalità, che è finalizzato su una società creata per il profitto, per la proprietà privata, non riuscirà mai a dare spazio a queste realtà. Ci vuole la comprensione dell’autorità politica a favorire e a trovare delle soluzioni ad hoc per queste cose. Penso che nel resto della Svizzera l’abbiano fatto da diversi anni. Qui da noi siamo una provincia e siamo messi male, ecco”.

L’entrata all’ex-Macello

“Poi siamo entrati il mercoledì, se non mi sbaglio, qualcosa del genere. Me lo ricordo bene perché era il mio compleanno e facevo trent’anni. Il 18 dicembre 2002, era la prima sera che abbiamo messo piede al Macello. Sì… non c’era niente. Nel senso, il Macello era un macello. Adesso, Borradori in primis e gli altri municipali o consiglieri comunali che insistono su ‘ridiamo il Macello alla popolazione’, voglio dire, a nessuno è mai fregato niente di quel posto lì perché ce l’hanno dato che era veramente in uno stato pietoso. L’abbiamo ridato noi con la nostra energia alla città di Lugano”. “Diciamo che passando dal Maglio a quello spazio c’erano tanti punti di domanda, sia per l’ubicazione, sia perché, evidentemente, proprio a livello architettonico era tutt’altra struttura. Prima cosa non era proprio la stessa cosa di entrare quando occupi uno spazio che magari c’è quell’entusiasmo perché te lo sei scelto. Dall’altra, ero consapevole che avremmo potuto sviluppare un sacco di situazioni all’interno di quello spazio, vedevi la grandezza, incominciavi ad entrare e vedere i diversi spazi, quindi cominciavi un po’ a immaginare quello che avresti voluto concretizzare”. “La struttura del Macello, diciamo che è risultata quasi subito molto inquietante, nel senso che poi all’inizio era veramente brutto entrare negli spazi. C’era un’energia di morte, una cosa spaventosa, al punto che la maggior parte di noi non riusciva neanche a entrare negli spazi realmente, ma restavamo lì, sul cortile”. “C’erano ancora i resti dei maiali, il sangue delle bestie sgozzate, era completamente distrutto, ecco”. “E poi piano piano, credo che qualcuno abbia pulito anche energeticamente. Perché poi, è chiaro che all’interno di una situazione di autogestione ci sono le varie anime, no? C’era anche l’anima che trovava importante andare a sviluppare e a capire meglio le energie sottili, che sono andate a pulire un po’ energeticamente il posto. Ma l’energia poi è cambiata con gli anni, con tutti gli eventi e tutte le cose invece vitali che sono state fatte all’interno di questa struttura, no?”.

“Che comunque non era la nostra prima scelta di stabile. Perché comunque era un macello e comunque era messo male. Cioè, renderlo funzionale per il Molino era veramente difficile. Dei locali erano praticamente delle stalle, altri non erano minimamente isolati e non avevano le finestre. Quella sarebbe stata la terza volta in cui ricostruire tutto”. “Ed è iniziato un periodo di grandi lavori, dove si è cercato di individuare quali quelle fossero le prime necessità. Ci siamo resi conto di quanto c’era da fare, voglio dire. Sempre nell’idea, comunque, che avremmo recuperato parte del materiale dal Maglio e lo avremmo riportato lì. Impianto elettrico, mi sembra che anche lì era assente. Altri spazi invece richiedevano chiusura, pareti, finestre. E pensare a come riscaldare. Poi la cucina, i tavoli”.

“Quindi dovemmo trovare il modo di riscaldare gli spazi. Vennero costruite delle stufe, isolati gli spazi. Comunque rimaneva un luogo molto freddo. Una delle prime cose che facemmo fu una mensa popolare che funzionò fin da subito, nel senso che venivano molti liceali, anche molti professori, a mangiare. Anche la sala concerti venne costituita molto rapidamente. Il primo concerto fu quello dei ?. Probabilmente delle tre strutture era forse quello più precario”. “Però avevamo molta energia nel voler riproporre il prima possibile le attività che volevamo offrire, anche perché eravamo tornati in città”.

“Penso che anche quello stabile lì ha influito sul riuscire a portare avanti il Movimento, perché mi ricordo quando stavi su di sopra in ufficio a scrivere, cioè rischiavo l’ibernazione, ti si staccavano le dita. Quindi anche lì era diventato tutto più difficile fare il Movimento, utilizzare quel posto lì per costruire le attività. E forse avremmo dovuto fare un passo in più. Ma anche lì non si voleva prendere altri soldi dal municipio… per renderlo minimamente, non dico lussuoso. Però il fatto che non avesse delle finestre e che non fosse minimamente isolato, e così quello è innegabile che ha fatto sì che fosse possibile svolgere soprattutto l’attività ricreativa serale. Perché stare con la giacca, magari a sentire un concerto può funzionare, ma sicuramente stare in una sala cinema a otto gradi, a guardare due ore di film diventava più difficile, come stare a fare Assemblea o gruppo di lavoro, congelando…”.

Il fantasma del Mattirolo

In quegli stessi mesi il collettivo Folletti Urbani occupa i primi due piani dell’ex-Collegio Soave a Bellinzona, ma un rapido intervento di polizia blocca sul nascere l’esperienza. A Mendrisio, invece, il fantasma del Mattirolo occupa, con più fortuna, la colonia.

“L’abbiamo trovato perché era un posto di proprietà dello Stato che era accanto al centro professionale, alle medie, al liceo di Mendrisio, che però era relativamente vuoto, veniva usato come deposito dalle scuole professionali. Noi avevamo già cominciato, come gruppo, un discorso di rivendicazione col Comune di Mendrisio di uno spazio. Abbiamo cominciato con il fantasma del Mattirolo e poi abbiamo deciso… Cioè, per dire la paura che c’è dell’autogestione, mi ricordo che noi come rivendicazione abbiamo acceso delle torce una notte di fronte a degli spazi vuoti di Mendrisio. Il giorno dopo il proprietario, dico, lo ha abbattuto illegalmente, pagando una multa stratosferica, perché aveva paura dell’occupazione. Per dirti i livelli di caccia alle streghe che c’era. È stata molto intelligente, da un certo un punto di vista, la scelta di occupare uno spazio cantonale perché comunque avevi a che fare la controparte, non era solo il comune, ma era anche il Cantone. La situazione politica in quel momento era abbastanza tranquilla, se vogliamo. Il fatto di avere le scuole vicino ci ha permesso di avere un’affluenza praticamente costante e il fatto di aver messo l’accento sulla parte della cucina. Noi avevamo tutti i mezzogiorni degli studenti che mangiavano. Una delle altre problematiche dell’autogestione che abbiamo visto è la tendenza, essendo una società che vive del servizio, che scivoli sempre di più nel servizio”. “La colonia è durata un anno e qualcosa in più. Perché a un certo punto si trattava di decidere cosa fare e avevamo la sensazione di essere un servizio come tutti gli altri”. “Si tratta di andare costantemente in una direzione contraria, reinventandoti affinché il mercato non ti copti, ma l’importanza del mercato è talmente devastante, è talmente forte che complicatissimo. È facile a dirsi, ma molto meno farsi”.

Episodio 8: Lo strappo

Introduzione

Questo 8º episodio di Macerie è forse il più difficile da realizzare. Da una parte racconta degli anni in cui ho partecipato più attivamente alla vita del centro sociale e allo stesso tempo fa il punto su un periodo di confusione, di rottura, uno strappo, un cambio di passo del Movimento che forse non ho ancora del tutto capito e digerito bene. Il Macello era stato conquistato grazie a un periodo di intensa presenza in piazza, proteste e trattative. Il municipio aveva dovuto capitolare.

“Il Movimento, in seguito allo sgombero si è rinvigorito. C’è tutta la fascia giovanile che si è inserita all’interno del Movimento che prima non c’era, che prima non era presente. Anche per il problema di dall’ubicazione del centro sociale, che prima era al Maglio, questo secondo fattore importantissimo. Finalmente siamo riusciti a ritornare in centro”.

Nel dicembre 2002, si era quindi entrati nell’ex-Macello comunale, uno spazio centrale ma difficile da gestire, poco adatto, freddo, umido, coi tetti stabili, senza servizi igienici funzionali e senza un vero impianto elettrico. Una condizione di perenne precarietà e con poca possibilità di progettare il futuro.

Questo è l’8° episodio di Macerie. Si intitola ‘Lo strappo’.

Il primo periodo al Macello

“Era comunque uno spazio non entusiasmante, ma proprio perché passi da un posto in cui ti sentivi bene, ti trovi in uno spazio totalmente diverso. La questione dell’umidità, con tutta una serie di situazioni che già si vedevano… dei tetti… con tutte le varie sale diverse adibite a tutto quello che è la macellazione, gli odori che ci stavano dentro. L’assenza di finestre, l’assenza di porte. Quindi c’era tutto questo”.

Nonostante le difficoltà, le attività fiorivano. Nasce una mensa popolare, un infoshop, una sala concerti e poi spazi per mostre e riunioni, un negozio di seconda mano, una sala prove, una sartoria, una radio e più tardi una serigrafia e una palestra. Il Molino rinasceva per la terza volta grazie al lavoro e all’impegno di tantissime persone.

“Avendo un posto fisso avremmo potuto veramente metterlo a posto, con tutto il rispetto del caso e della struttura”. Perché non lo si è fatto? “Perché, appunto, non è mai stato chiaro, perché siamo andati avanti per vent’anni, ma c’era sempre questa spada di Damocle in continuazione. Abbiamo visto appunto questi momenti dove volevano sgomberarci, dove poi avendo avuto prima un incendio, poi uno sgombero, non è che non ci credi più. Cioè, sai che in qualche modo ne troverai un altro, ma non investi su quel posto lì”.

Per un certo periodo, i contatti con le autorità sono andati avanti con una certa intensità, anche perché il Macello, secondo la convenzione firmata con il municipio e il Consiglio di Stato doveva essere solo una sede provvisoria ed era quindi necessario trovare una sede definitiva.

“Il patto era ‘incontriamoci per trovare una sede definitiva’, non che c’erano altri sensi per incontrarci. Il Comune non si è mai impegnato, mai, checché se ne dica, l’abbiamo incontrato tante volte. Con Giudici prima, con Borradori dopo, Albertini, eccetera, eccetera. Un sacco di volte, però, dopo… Quando cominci a incontrare una persona e un municipale ricomincia a dire ‘però insomma, la mescita, il bar…’. Cioè, era una roba che noi davamo per acquisita vent’anni fa e ci viene fuori ancora a parlare di questa cosa. Le autorità e i privati fanno terra bruciata degli stabili vuoti, perché comunque terreno pregiato di Lugano vale un sacco. E così di spazi ne rimangono pochi”.

“Poi è chiaro che l’autogestione ha un dilemma di fondo suo, che è il riconoscimento di questa autorità. Perché di fatto, se esiste, esiste per creare un’alternativa a questo tipo di sistema. E quindi, in sé, non lo riconosce. Cioè, i presupposti, insomma, possono essere un po’ questi. Ma dopodiché siamo persone, quindi non è escluso parlarsi. Però ci vuole una disponibilità, ecco, che fino adesso non si è vista. Perché anche nelle persone che si dicono più disponibili, che si interessano eccetera, non c’è comunque una reale capacità di capire il fenomeno”.

Nel 2003 l’Assemblea rende pubblico il cosiddetto Progetto Molino, un documento di oltre 100 pagine in cui si propone di realizzare negli spazi dell’ex-Macello una cittadella dell’autogestione. “Il progetto approfondisce gli aspetti sociali, gli aspetti culturali e politici che il Molino porta avanti e quindi, in sintesi, propone finalmente di dare una sede definitiva al centro sociale, in modo tale da poter essere progettuali e avere la certezza di poter costruire su un lungo periodo. E quindi chiediamo il Macello come sede definitiva”.

“Convocammo un’Assemblea, partecipata da più di 100 persone, in cui mettemmo in discussione la questione dell’autogestione del Molino. Parteciparono associazioni culturali, rappresentanti di associazioni per i migranti, per altre situazioni di difficoltà… in cui si voleva veramente riuscire a creare qualcosa. A Lugano non c’era un dormitorio, non c’era la lavanderia pubblica, a Lugano non c’era una mensa popolare. Non c’erano tutti quegli spazi pubblici in Ticino, non c’era niente. Quindi, anche come Molino ci siamo interrogati su questo”. “Non so, c’erano tantissime possibilità che si potevano prendere in considerazione sulle quali volevamo lavorare”. “Una cittadella in autogestione dove non ci sia un direttore culturale, ma piuttosto un collettivo di persone che scelga come fare cultura, che tipo di cultura fare. Un modo anche più sociale di sviluppare aspetti culturali e politici”. “Avere uno spazio, avere uno spazio in cui possiamo svolgere le nostre attività, portare le nostre idee, che magari sono solo diverse dalle loro, ma non per questo non sono non solo buone o magari migliori”.

E perché non si è arrivati alla realizzazione di questo progetto? “ E chi lo sa? È stato lanciato in conferenza stampa. Il progetto è stato un po’ lavorato e poi, piano piano, però ci sono stati chi era insicuro, chi non si sentiva tanto, era comunque un progetto dell’autogestione, era comunque un progetto che rispondeva all’Assemblea. Era comunque un progetto che fondamentalmente si sviluppava su vari strati di, tra virgolette, illegalità, o precarietà. Degli spazi indefiniti, freddi, che necessitavano ancora ristrutturazione, che non si sbloccava la situazione… Avessero detto ‘potete restare per cinquant’anni’, di isolazioni e di migliorie alla struttura ne avremmo fatte tantissime. Non c’è mai stata data quella possibilità. Le condizioni non erano facili, tante persone si stavano staccando, altre avevano altri progetti e la situazione girava… e quindi ci si è trovati poi, dopo un po’, a continuare con chi era rimasto, con chi voleva fare certe cose”.

“Speriamo che, appunto, queste trattative, alle quali per l’ennesima volta ci siamo dimostrati disponibili, vadano in porto finalmente”.

Lo spostamento a destra di Lugano e del Ticino

Questo è anche il periodo in cui ho iniziato a vivere al Molino. Mi ricordo degli anni intensi, belli, un turbinio di cose da organizzare, da fare e da costruire. Tanto lavoro per le manifestazioni, le proteste contro il WEF, Indymedia, i progetti di informatica libera, il coordinamento del precari esistenziale, concerti, cinema e proiezioni. Nonostante l’assenza di una discussione seria con le autorità, per anni del Molino non si è preoccupato nessuno. Regolarmente, in occasione delle elezioni comunali, si tornava a parlare di sgombero, ma non era mai nulla di serio. Le attività socio culturali e politiche sono andate avanti per anni, coinvolgendo migliaia di persone.

Intanto però il mondo fuori dal Molino stava cambiando. Passano gli anni e la politica istituzionale in Ticino e a Lugano si sposta sempre più a destra. Nel 2008 viene eletto in municipio il leghista Lorenzo Quadri, direttore del Mattino della Domenica. Nel 2011 Norman Gobbi viene eletto in Consiglio di Stato, anche lui leghista. Viene messo a capo del Dipartimento delle Istituzioni, occupandosi così di giustizia, carceri e polizia. A Gobbi verrà dedicato un intero dossier di controinformazione da parte della Brigata Antifascista Ticinese, in cui vengono messe in luce le presunte simpatie neofasciste del ministro.

Nel 2013 un altro leghista assume un ruolo chiave nella nostra storia. Marco Borradori, che viene eletto sindaco di Lugano, mettendo in questo modo la parola fine al regno quasi trentennale del liberale Giorgio Giudici.

“Lugano, fondamentalmente, è passata dal essere una città liberale a essere una città leghista. E questo ha sicuramente cambiato le carte, le carte da gioco. Trattare col sindaco, con i municipali della Lega è diventato pressoché impossibile. Non si è più trovato quel humus sufficiente per poter dire ‘dialoghiamo’”.

“Sono brozzoni anche perché, oltre magari a non lavarsi molto, brozzano anche i beni pubblici. Io davanti alla redazione del Mattino della Domenica ho ancora una scritta ‘Lega M…’, che ancora non si è riusciti a cancellare, come ricordo delle iniziative ad alto contenuto culturale di questi signori” (Lorenzo Quadri).

“Con questi, noi, io sono in municipio dal 2013, non so ancora oggi il nome e il cognome di una persona che vuole discutere col municipio” (Municipale). “Poi siamo scivolati direttamente nella delinquenza, delinquenza che l’ente pubblico non può tollerare e non può continuare a farsi ricattare, farsi prendere per il naso da questi signori. È evidente che, con simili interlocutori, c’è ben poco da negoziare, c’è solo da sgomberare” (Lorenzo Quadri).

“È impossibile negare il fatto che non si abbia un minimo di dialogo con il municipio. Certo è, che se dalla parte del municipio abbiamo a che fare con una forza politica che è in totale contrapposizione, che anzi ideologicamente ritiene assolutamente inaccettabile l’esistenza di Molino, è pressoché impossibile poter intavolare un dialogo in questo senso”.

L’economista Cristian Marazzi, in una serata organizzata da Naufraghi, descrive bene questa nuova organizzazione del potere in Ticino: “La cosa a cui tengo molto a sottolineare è la dimensione strutturale di questo processo. Noi siamo oggi di fronte a un potere che è il potere della polizia, un potere fascistoide che si è costruito sistematicamente e scientemente a partire dall’arrivo di un personaggio, in particolare al Consiglio di Stato, che ha fatto della lotta contro il migrante, contro il richiedente d’asilo, che ha fatto di queste persone, che sono evidentemente le più deboli, un bersaglio e le ha trasformate in nemico, in nemico pubblico. Da qui a considerare i Molinari, il passo è estremamente breve. Un processo politico che ha portato il potere oggi ad essere il potere sovranista, leghista, razzista e che è rappresentato da coloro che sono al governo a Lugano, ma soprattutto

a Bellinzona”.

I cambiamenti generazionali

Un altro elemento di cambiamento da tenere in considerazione è dato dalla fine del cosiddetto movimento no global. “Sì, dopo Genova, è stato un disastro, perché tutta quella grande rete, quell’energia che si era creata, a questa energia è stato inferto un colpo quasi mortale. Mi ricordo che quando io, quando sono tornata da Genova, sentivo gli elicotteri, i fischi della polizia e della repressione, l’ho sentita ancora per svariate settimane questa cosa. Ed è una roba che ti segna”.

“Io farei un prima e dopo Genova. Prima si andava in manifestazioni sereni, con leggerezza, anche con gioia. Spesso erano manifestazioni colorate, partecipate anche con bambini e con donne incinte che venivano a fare la manifestazione. E poi il clima ha cominciato a cambiare. Genova ne è l’esempio. Perché è vero che a Genova è morto Carlo Giuliani, ma tante persone si sono trovate in situazioni dove si sono sentite in pericolo di vita. E quindi fino a lì tu non andavi in manifestazione pensando di rischiare la vita. Quando ci si è resi conto che si rischiava la vita andando in manifestazione, le cose sono cambiate. C’è stato quello e c’è stata un’altra cosa. Il fatto che una manifestazione come Genova, con tutte le persone che ha portato in piazza, non ha cambiato una virgola della politica dei governi. Cioè, lì ci si è resi conto proprio anche che l’impegno messo e gli sforzi fatti, il fatto di rimanere comunicativi, di essere trasparenti… Ecco, però poi si è stati ripagati con un’altra moneta, con violenza. E lì la motivazione è scesa, è aumentata la paura e qualcosa ha cominciato a rompersi. A livello svizzero avevano arrestato e messo in isolamento alcune persone del Movimento della Svizzera francese e anche quello ha fatto paura”.

“Prelevati ad uno ad uno, un paio di centinaia di ragazzi sono stati perquisiti sotto la tenda con metodi non proprio ortodossi. Un medico è dovuto intervenire a due riprese per una tachicardia e per delle ferite leggere. Poi i giovani sono stati trasportati, ammanettati con fili di plastica, al carcere più vicino” (Reportage).

“Qualcosa è cambiato nella testa di tutti. Almeno, la mia generazione era ancora quella che era venuta, che ha vissuto, il momento in cui essere comunicativi, essere trasparenti e così portava comunque a dei risultati. Era qualcosa di interessante. Quelli che sono arrivati in quegli anni lì, penso che hanno vissuto altro da quello che ho vissuto io. Hanno vissuto solo la repressione, hanno vissuto un po’ l’inutilità del comunicare. Cioè, il Molino viveva di comunicazione, di comunicati stampa, di volantini, di dialogo con la popolazione e con le altre forze politiche”.

“Certo Carlo, il ragazzo sparato a Göteborg. Il compagno Edo, morto dopo una manifestazione a Zurigo per l’inalazione di gas lacrimogeni… è morto a Riva San Vitale e tante altre situazioni, che adesso… Ma che hanno creato più che in noi, che comunque siamo rimasti fermi sulle nostre posizioni o comunque abbiamo continuato a volere intervenire, interagire in questa situazione, direi che ha creato un forte sconforto nelle persone che si avvicinavano e che si stavano creando una coscienza, che avevano voglia di dire ‘sì, voglio partecipare anch’io a un possibile cambiamento’, che di fronte a una cosa del genere ha creato quello che si può definire una forma di paura. Paura legata anche all’inutilità, perché tutto questo Movimento non ha portato nessun cambio, anzi, se caso ha accelerato il passaggio verso il sistema che ci troviamo di fronte adesso”. “Poi forse ci si è domandati ‘che senso ha parlare, che senso ha chiedere quando poi fanno quello che vogliono?’. Si può pensare al Molino, a questi movimenti, sia guardando proprio micro, cioè il Molino, il Movimento. Ma bisogna ampliare lo sguardo e guardare l’insieme della società: ‘cosa sta succedendo? com’era la società in quel momento?’. Anche per fare dei paragoni con adesso, ‘come è la società adesso?’, perché probabilmente noi come Movimento eravamo frutto di quell’epoca lì. E il Movimento che c’è adesso è frutto di quest’epoca qua”.

“Allora io fino al 2011, 2012, 2013 sono stato attivo più al 100%, diciamo così. Poi però gli ultimi anni, attorno 2010 così, avevo visto comunque un periodo un po’ di stanca. Avevo pensato ‘ma non si può proporre, adesso che siamo ancora forti politicamente, ma anche a livello di numeri, vedere magari di trovare qualcosa di più, magari ristretto, più facile da gestire?’. Senza cioè, rimanendo sempre noi stessi e senza che ci impongano delle regole… Però poi non c’era stato molto appiglio su questo argomento”. “Ma io non lo so, non so darmi una spiegazione. Quello che sicuramente è successo è che quelli che hanno occupato nel ‘96 piano piano si sono ritirati in termini di non essere più militanti attivi. C’è stato anche un, come dire, scambio generazionale, no?”. “Ecco, una differenza sostanziale che ho potuto vedere è che, se noi, i primi vedevamo un po’ il Molino come un nostro figlio, le nuove generazioni hanno cominciato a vederlo come un padre, che cambia veramente completamente l’impostazione verso il Molino, no? O anche nella progettualità, per esempio il fatto di avere un papà Molino forse ti dà anche la possibilità di immaginare di poterlo cambiare, come forse potevamo pensare noi che siamo arrivati con un foglio vuoto”.

L’occupazione di Villa Selva da parte del gruppo anarchico Selva Squat

All’alba del 25 ottobre 2008 un nuovo soggetto si manifesta a Lugano. A sorpresa viene occupata la Villa Selva a Massagno, abbandonata da anni. Nel comunicato, firmato Selva Squat anarchico, pubblicato dopo l’occupazione, si può forse leggere una certa critica all’operato del Molino, scrivono:

L’occupazione di un posto sfitto è il punto di partenza per chi è seriamente deciso a praticare l’autogestione.

“Cappuccio della felpa in testa e sciarpa fin sopra il naso, i più organizzati hanno il passamontagna e aspettano i rinforzi. Fuori dallo stabile, non lontano, oltre agli agenti della polizia municipale e cantonale, c’è un altro gruppo di ragazzi del Centro Sociale Occupato Autogestito il Molino. Sono arrivati a sostenere la decina di giovani barricati nello stabile luganese disabitato da vent’anni, rispondendo al tam tam lanciato su internet dal sito Indymedia. ‘Noi non c’entriamo e non sappiamo chi sono’, ci riferiscono ma hanno la nostra solidarietà” (Reportage).

L’occupazione si concluderà 15 giorni dopo con uno sgombero. Cinque persone verranno incarcerate con una serie di imputazioni che andranno da violenza contro funzionari, all’uso improprio di materiale esplodente e sommossa.

La sensazione di smarrimento

“Piano piano si è assistito a un cambiamento. Il centro sociale anche ha subito da una parte delle chiusure e dall’altra parte delle non carezze all’interno delle persone che si affacciavano e facevano la vita del centro sociale. Penso che per anni, dopo queste rotture, si sono vissute delle fluidità secondo me abbastanza nocive all’interno degli spazi. Non si sapeva più effettivamente cosa si voleva. Era uno spazio che si viveva, si consumava, veniva lasciato un po’ al caso”. “E questo sicuramente ha creato sia delle chiusure, sia il fatto che le persone che magari lo frequentavano si dicevano ‘ma non ci sono più un certo tipo di, tra virgolette, eventi o di proposte anche contro-culturali di una certa importanza… Il momento della festa diventava il momento della festa euforica, molto vuota, molto fine a sé stessa, no? Molto ‘me la vivo così e poi ritorno a casa. Il giorno dopo, se c’è un appuntamento, un presidio o un corteo, non me ne frega niente’. E secondo me l’aspetto del Molino o di tanti centri sociali è stato risucchiato in questo vortice e non si è più stati in grado di dare delle prospettive e delle visioni. Uno smarrimento generale, ‘cosa facciamo di fronte a questo mondo che sta accelerando, sta cambiando? Ci stanno imponendo tutte queste nuove leggi, i fenomeni delle migrazioni di massa, di gente, di cose, spostamenti’. ‘Beh, facciamo festa, divertiamoci, viaggiamo con i voli low-cost e con le possibilità che noi, come parte del mondo occidentale privilegiata, possiamo fare e il resto chi se ne frega’. Questo secondo me ha creato un forte scazzo, una forte rottura, un forte disorientamento”.

“È durato per tanto tempo, penso, questo aspetto. Penso dieci anni, magari no, ma sei, sette, otto anni. Nonostante questo aspetto e tutte le criticità, il Molino è sempre stato uno spazio di resistenza e di solidarietà. Ha sempre e comunque… non si è venduto, non ha… Ogni tanto ha cominciato a zoppicare, a far fatica. Però non si è venduto. Era uno spazio che ha continuato a resistere. E però diventa difficile la gestione, la vita quotidiana, gli scazzi, le pressioni, il non capire dove cavolo vogliamo andare, che cavolo vogliamo fare”.

Questa sensazione di smarrimento non è sentita solo all’interno del Molino, ma è probabilmente generalizzata in tutto il Movimento europeo che deve trovare dei nuovi obiettivi e delle nuove pratiche. È per questo che in quegli anni ci si interroga e ci si riorganizza.

“Penso che una parte del Movimento ha detto ‘che cavolo stiamo facendo? Bisogna creare un’accelerazione’. Sarebbe da fare un certo tipo di discussione. So che probabilmente è ancora difficile creare questa discussione, ma una certa si è provveduto a creare un’accelerazione. Quindi il sistema ci sta sempre più opprimendo entro una forma di controllo quasi totalizzante. Dobbiamo entrarci a gamba tesa. E questo ha creato tante tensioni, tante rotture e tanta repressione che compagni e compagne si sono sentiti sulla propria pelle. E ha fondamentalmente disgregato una grossa parte di Movimento”.

Ma, per intenderci, quali erano queste nuove strategie di lotta più efficaci? “Entriamo probabilmente in un territorio non di facile discussione, non lo so… L’azione diretta, sicuramente, ma non che non ci fosse prima l’azione diretta, perché l’azione diretta era comunque una pratica comune che adottava il Movimento, non più in maniera di massa, che appunto abbiamo visto che lasciò il tempo che trova, ma con una strategia mirata, chiaramente, con anche un mettere in gioco le proprie vite ancora a livello più presente e più definito”.

E questo dibattito o questo cambiamento di passo c’è stato, secondo te, anche alle nostre latitudini, al Molino? “Penso di sì, penso di sì. Ci sono state, penso anche all’interno del Molino delle rotture e dei percorsi diversi, delle incomprensioni, delle discussioni. Sicuramente anche degli arricchimenti. Io li ho visti un po’ come negli anni dolorosi, fondamentalmente, a livello politico e umano, perché poi rientra anche nel tessuto delle amicizie, dell’umano, delle condivisioni, delle tenerezze che si creano tra le persone che può sfociare o generare incomprensioni e litigi, scazzi, abbandoni, cammini diversi… Ma rivivendoli adesso, probabilmente, sono stati anche degli anni utili a rafforzare il fatto che questo sistema di dominazione è inaccettabile”.

“E lì non si è riusciti a uscirne. Erano comunque gli anni che si cominciava a cercare da una parte di essere un po’ più duri e puri, dove si voleva avere una linea un po’ intransigente, no?” Ti dispiace? “Sì, sì, mi dispiace. C’è stato un momento dove ci siamo chiusi. Sia verso municipio e Cantone, che forse invece avremmo potuto farci aiutare perché non era più realistico. A un certo punto si diceva ‘facciamolo noi il tetto’. È vero che al Maglio avevano fatto l’isolamento, avevamo rifatto il pavimento, ma era qualcosa che potevamo fare. Rifare un tetto… lì non potevamo farlo. Secondo me c’era un po’ una distanza tra quello che ci si proponeva di fare e quello che si poteva fare. Infatti il tetto non è mai stato messo a posto, l’isolazione non è mai stata messa, le finestre non sono mai state posate. E quello, secondo me, ha contribuito a creare una spirale un po’ discendente nelle attività e nelle possibilità che offriva quello spazio. Quindi sì, mi dispiace e mi spiace anche che prima si cercava sempre di coinvolgere, di essere aperti. E questo poi, anche quando poi io non ero più al Molino, ho avuto l’impressione che questa cosa si esacerbasse, no? Come se il Molino fosse depositario di un unico modo di comportarsi, di cui chi non lo sottoscriveva non era degno. Secondo me è pieno di gente che porta avanti buone idee e buone visioni, magari non in modo eclatante, non in modo completamente coerente, però fa delle belle cose, merita il rispetto e poteva, e sono persone che potrebbero essere coinvolte, potrebbero essere vicine. Basterebbe poco. Una volta era più facile farlo, mi è sembrato che negli anni è diventato più difficile per il Molino raggiungere queste persone. E quindi anche quello, mi è spiaciuto molto, sì”.

“Quindi, anche se c’è stato un periodo di difficoltà, anche relativamente lungo, però lo si è superato in qualche modo. Non è finita neanche lì”.

“È quella la storia, l’autogestione non è una cosa statica. L’autogestione è dinamica, è un cammino, è un percorso. Noi avevamo questo background zapatista. Questo momento storico probabilmente fa riferimento a degli altri modelli di lotta, ad un altro target o a degli altri obiettivi che non è che siano completamente diversi, ma che possono differire in strumenti o in modalità o in concezione, rispetto a quello che eravamo noi”.

Cosa è successo al Molino negli anni successivi? Come si è organizzato il Movimento? Cercheremo di fare un po’ d’ordine sul periodo che ha preceduto lo sgombero del Macello nel prossimo episodio.

Episodio 9: La variante μ

Introduzione

Prima di partire con questo nuovo episodio facciamo un passo indietro. Prendiamo un po’ di rincorsa. Torniamo alla puntata precedente, al novembre 2009, quando è stato occupato il Selva Squat di Massagno. “Perché abbiamo fatto un’occupazione? Perché avevamo voglia di provare con le nostre mani e mettere la nostra testa in questa prospettiva più anarchica che nel Molino, non che non ci fosse completamente, ma lo vedevamo più come un contenitore di diversi pensieri, diversi ideali. Però avevamo voglia di intraprendere questa lotta un po’ più specifica e capire cosa voleva dire occupare. Quindi con un gruppo di diverse persone, ma non più di 8-10, abbiamo cercato una casa e ci siamo lanciati senza troppi, diciamo, senza troppa preparazione in questa occupazione a Massagno. Allora, sicuramente al Molino c’erano stati dei gran dibattiti, con anche litigi, per le diverse visioni o quelle sfumature… che oggi chiamo sfumature, forse una volta erano più… per me, ma non era accettabile che forse qualcuno la pensasse diverso da me. C’eravamo focalizzati su alcune lotte, come la lotta anti-carceraria e liberazione animale. E ricordo che i primi battibecchi c’erano stati con, non so, le cene vegan che proponevamo e quindi c’erano delle.. eh, dei malumori. Quindi da una parte non ci sentivamo compresi, dall’altra magari i messaggi erano anche forse diretti, senza mezzi termini. Per cui, sì, c’erano una comunicazione che non funzionava bene, per cui ci siamo sentiti anche un po’ fuori luogo lì e abbiamo provato un’altra strada”.

“È durata 17 giorni l’occupazione del villa disabitata in Via Tesserete 30 a Massagno da parte di un gruppo di squatters. Stamattina all’alba, infatti, è avvenuto lo sgombero ad opera della polizia e ci sono anche cinque arresti” (Reportage).

“Il gruppo che si è creato un po’ intorno al Selva aveva una visione radicale dove portava un certo tipo di conflittualità e forse questa modalità non piaceva troppo a chi partecipava in quegli anni al Molino. Io oggi non cerco le colpe e per me è importante guardare invece come bagaglio di esperienza. E vedo anche un po’ un’autocritica, nel senso che si era molto intolleranti a delle attività, magari che erano appunto più sociali al Molino, dove non c’era magari il fine politico”.

“Sì, effettivamente, c’era un confronto. C’era un confronto che era anche spesso duro su certe visioni. Era più che altro, secondo me, una diversità in quel periodo di gestione e di visione. Il Molino era un centro sociale, c’era una realtà anarchica che invece non per forza, secondo me, pensavo di dover avere un centro sociale per poter portare avanti un determinato discorso politico di rivendicazione. Io ricordo, per esempio su di me, quello che mi ha sempre un po’ messo in difficoltà era semmai la distinzione tra percorsi più anarco-individualisti e percorsi invece di lotta collettiva, quindi di dinamica assembleare”.

“Ed ora questo significativo traguardo, 15 anni di vita dell’autogestione a Lugano. È dunque ancora attuale il tema dell’autogestione e come si presenta oggi agli occhi della gente? Visto che talvolta l’opinione pubblica la vede come una realtà ghettizzata e anacronistica”. “La testimonianza migliore viene dalla frequentazione che c’è. Molto presente, molto partecipata alle attività culturali e politiche che vengono offerte dal Centro Sociale Molino. E direi anche che è un costante rinnovamento, un cambiamento, e le forme che assume sono sempre diverse, a dipendenza del contesto in cui ci si trova in quel momento” (Reportage).

Un costante rinnovamento e cambiamento che genera varianti, quasi come un virus. Nel 2011, quando il Molino festeggia i suoi 15 anni di esistenza, la pandemia è ancora solo una distopia. Il Movimento globale sta sperimentando nuove forme di organizzazione Occupy Wall Street, le primavere arabe, le rivolte studentesche in Sud America, le Femen e anche il Molino sta vivendo una sua metamorfosi.

“Perché tu mi hai chiesto cosa è cambiato. Io penso che, fondamentalmente, rispetto ad altri spazi, non ci sia stato un passaggio di generazione”. “Pian piano ho visto un po’ che chi aveva magari vissuto i Molini Bernasconi e il Maglio e poi nei primi anni il Macello si stava un pochettino togliendo da una partecipazione costante. E lì c’è stato un po’ uno sgretolarsi di un certo tipo di visione. C’è stato un ‘non mi riconosco più’, ‘non me la sento tanto’, ‘io preferisco fare altro’, io ho la mia situazione familiare’. Che va tutto bene, però bisogna rendersi conto che in un’esperienza del genere comunque si possono anche generare dei vuoti”.

Questo è il 9º episodio di Macerie. Si intitola ‘La variante μ’.

Il cambiamento generazionale

Nel 2014, il Molino propone una Consulta, una specie di sondaggio fra le persone che lo vivono. Nel documento di sintesi, ancora disponibile online, si parla di mancanza di cambio generazionale, di energie, di prospettive, di sentirsi solo fornitori di servizi. Si accenna a grossi problemi della struttura, allo spaccio esterno, a risse e presenze di brutta gente.

“Qualcosa che ci ha colpiti un po’ tutti, perché il peso della struttura di tutta la gestione di un certo tipo prende talmente tanto spazio. E che poi ti senti quasi privato di quello che invece sono un po’ le tue voglie, voglie politiche di voler fare delle cose. È stato anche un peso, sicuramente”. “A un certo punto non so… si è saputo… c’è stata una capacità di riconsiderare delle diversità e delle pratiche e quindi questo ha per forza ha creato dei confronti, ha innescato delle nuove tensioni e ci si è detto s’oh, siamo tutti un po’ nella merda rispetto a quello che sta succedendo. Cosa vogliamo fare?’. E questo è stato un primo passo e un secondo passo, e penso che c’è stata una generazione di ragazzini e di ragazzine che si sono avvicinati con una visione politica di volontà ‘non voglio più quello che stiamo vivendo’. E non solo con una visione legata al nostro territorio, ma una visione internazionalista. Poi con ingenuità, probabilmente con anche incomprensioni, con tutta una serie di problematicità, che però hanno saputo dare nuova linfa. E quindi si iniziava a sviluppare anche una nuova forma di complicità. E quindi ci si è detto ‘no, ma proviamo a fare delle cose, a uscire, a fare…’”. “Sono stati anni dove sono confluite diverse individualità. Mi ricordo gli Skin, che hanno anche abitato il Molino, hanno occupato. Diverse persone, anche, che magari in quel momento non avevano un tetto. E quindi il momento di passaggio è stato veramente partecipato da diverse persone, non solo il Selva, non solo appunto le individualità, sono tante. Io ricordo dal 2010 al 2015 diverse situazioni che si sono create nuove al Molino”. “Mi sono reso conto che, andando avanti nel tempo, è cambiato talmente tanto attorno, a livello di politiche proprio di controllo, di polizia, sulla questione migranti, che una certa si è manifestata anche da parte di alcune persone un’urgenza diversa”. “È stato proprio un periodo di transizione, anche generazionale”. “Anche al Molino ci si è concentrati, oppure si è interessati anche di altre tematiche. C’è stato molta attenzione a quello che succedeva anche a livello repressivo, con molti benefit per prigionieri e prigioniere anarchici in Italia e in tutto il mondo. Da una parte, sono gli interessi anche di chi partecipava alla composizione dell’Assemblea, dall’altra non bisogna dimenticare che è anche un riflesso della realtà sociale nella quale viviamo”.

La capacità di rimettersi in gioco

Scorrendo l’archivio dei comunicati stampa sul sito del Centro sociale, saltano all’occhio le attività solidali con Silvia, Costa e Billy, tre compagni incarcerati per il tentativo di sabotaggio del centro IBM sulle nanotecnologie a Rüschlikon (ZH). Il sostegno alle lotte No Tav in val di Susa. La solidarietà con la compagna ?. Le azioni dirette contro le campagne xenofobe dell’Udc. La rivoluzione nel Rojava. Azioni solidali con i migranti nei bunker, contro il razzismo e prese di posizione contro la Croce Rossa. Questi sono anche gli anni in cui nasce il collettivo Scintilla, che porta avanti istanze anticapitaliste in maniera più popolare e allargata. Anche negli altri centri del Cantone qualcosa si sta muovendo.

“Era nato il Garage anarchico a Mendrisio, L’Abisso, che è durato non più di un anno, mi sembra. Dove comunque era interessante perché si erano conosciute anche le realtà di Mendrisio. C’era il ?, c’erano i ?, che sono un gruppo hip-hop. Era un vero e proprio garage in affitto. Era una biblioteca, principalmente, e poi si erano fatte delle iniziative, principalmente presentazioni di libri o delle chiacchierate. Ma un giorno o due a settimana c’era l’apertura e passavano principalmente gente del Mendrisiotto e poi, con delle proiezioni di film al liceo, abbiamo conosciuto appunto La gente di Massagno. Io la chiamo ‘Massagno hardcore’, ma erano diverse individualità che giravano anche con il gruppo Behind the Mirror, che facevano questa musica hardocre. E con loro abbiamo un po’ più invece legato. E poi con loro abbiamo avuto anche un futuro al Molino”.

“A un certo punto, nel 2015, abbiamo cominciato a fare delle assemblee tema. A un certo punto, abbiamo pensato che era essenziale ritornare un po’ sulle questioni politiche, a ridare un’anima politica”. “È un problema che è stato affrontato sistematicamente, ripetutamente, con una pazienza da parte dell’Assemblea, secondo me veramente… affrontate e superate assieme”. “Penso che uno sbocco è stata la questione migratoria e, allo stesso tempo, la questione delle nuove destre: la Lega, l’Udc e i cartelloni pubblicitari… Uscivamo a pitturare i cartelli, a fare delle proiezioni sui cartelloni, a fare delle azioni per contrastare questa deriva. C’è stato il bunker in cima al Lucomagno. Fondamentalmente, anche grazie alla mobilitazione, si è riuscito a chiudere. Mica eravamo masse. Però ha dato uno sbocco a una sorta di rinascita, una sorta di capacità di raddrizzarsi rispetto a questo. E penso che tanti ragazzi e tante ragazze giovani, con una capacità maggiore, secondo me, di capire anche la forma che stava prendendo il mondo, si sono avvicinati e c’è stata… non so se una rinascita, ma comunque una capacità di rimettersi in gioco”.

“Qualcuno dice ‘no, perché adesso sono più chiusi, sono più radicali, sono più…’. Però, non so, chi vuol definire la radicalità?”. Questo nuovo corso del Molino, però crea dibattito anche all’interno dell’Assemblea. “Ho una mia idea, nel senso che sono arrivate un po’ di persone, un po’ di compagni che hanno dettato un po’ la linea. Ed è chiaro che comunque è sempre stato così: chi si impegna e partecipa ha più peso come parola. Perciò, c’è stato questo nuovo gruppo che ha preso un po’ in mano le redini, se vuoi, dell’andazzo politico, di alcune scelte, alcune priorità che anch’io non ho condiviso”.

“Eh, come è cambiato, com’è cambiato è evidente. Se noi eravamo a un passo da invitare il vescovo per sostenere le nostre ragioni, l’ultimo Macello… È vero che se non combatti, ne fai parte. Però se la pensi diversamente proprio da tutti, non hai più il sostegno di nessuno. Noi eravamo più pragmatici. Il fine era il Molino, non ero era la rivoluzione, non era il ’68. Eravamo comunque un gruppo limitato, per quanto variegato, coeso, quindi molto forte. Poi avevamo allacci nella società, appunto”.

“È una questione difficile quello che ho sentito negli ultimi anni. ‘Radicali, chiusi’, ‘duri e puri’. A me faceva sorridere perché mi imbarazzano quasi le posizioni che alcuni portano avanti dal 2000, come se non fosse cambiato nulla. Stiamo accettando talmente tanto che non ci si rende più conto di cosa sia radicale o non sia radicale. E può essere che prima c’era un percorso diverso nel Molino, ma in 25 anni è strano che non che non cambi uno spazio. Cambiano le persone, cambiano le situazioni, cambia il periodo storico…”. “Da una parte può essere visto una chiusura e da un’altra parte può essere visto come una maggiore, come dire, integrità su alcuni argomenti. Poi ci sta di fare l’autocritica. Non so, penso che anche ci sia un po’ quell’immagine che se qualcuno crede tanto in una cosa e ci mette degli sforzi e crede in una lotta… forse c’è un po’ quell’immagine, ‘ah, il militante, l’attivista, il compagno’. E se io non sono tanto quanto questa persona, questa compagna, questo compagno, allora sono da meno. Spesso, quando si dice ‘o coinvolgono tanta gente, o non faccio niente’, ‘se facciamo un presidio e siamo solo in venti, allora non ne vale la pena’. Però se uno ha un’idea precisa e vede che la società va in una certa direzione, sicuramente si sarà sempre di meno. Quindi non è che se non c’ho dei grossi numeri, non ci sono tante persone, allora ha meno valore di quello che faccio. Anzi, tenere sempre l’integrità del proprio messaggio e però essere aperti a varie modalità di lotta, secondo me”.

La fine del dialogo con il municipio di Lugano

Nel 2013, a rendere più complessa la situazione, muore Giuliano Bignasca. Insieme al nuovo sindaco leghista Marco Borradori, entra in municipio anche il giovane rampante Michele Bertini. È forse lui a spingere per far sì che il Molino torni ad essere un problema all’ordine del giorno. Si occupa del dicastero Sicurezza e viene soprannominato lo sceriffo. Sull’ordine pubblico e contro il Molino costruisce parte della sua carriera politica. I leghisti in municipio lo seguono: la destra non può farsi superare su questo tema da un liberale.

“Prima vi era una convivenza perché vi era indifferenza. Il municipio tollerava la loro presenza sulla base di una convenzione di inizio anni 2000 sul sedime dell’ex-Macello. I rapporti si sono rotti dal momento che il municipio ha detto ‘ecco, adesso non possiamo più andare avanti oltre con un sedime in centro così pregiato, così bello, in una situazione di fatiscenza come quella che si trova oggi’” (Michele Bertini).

“Pertini, da quando è arrivato in municipio a Lugano, una delle sue missioni era ripristinare l’ordine e la legalità all’ex-Macello. Ma che ti frega? Di cosa stiamo parlando?”. “Non è che prima, nel senso, i politici fossero chissà cosa… Però diciamo che dalla padella siamo finiti nella brace”.

“Direi che il tempo della pazienza ora è finito. Bisognerebbe arrivare rapidamente a una soluzione” (Michele Bertini).

“Io posso dire che, da che mi ricordo di aver partecipato alla prima Assemblea del Molino, il Molino è sempre stato sotto sgombero,, anche quando di fatto non lo era. Comunque nei discorsi dell’Assemblea c’è sempre stato il fatto di essere sicuramente precari e questa precarietà era scandita dalle elezioni municipali ed era sempre in prossimità delle elezioni che i discorsi su gli eventuali rapporti con le autorità saltavano fuori”.

Il Ticino sarà in perenne campagna elettorale 2016, 2019, 2020 e 2021. Il Molino, come sempre, rimane uno dei facili bersagli contro cui puntare per profilarsi e raccogliere voti. “Quello che mi preme di più riconsegnare ai cittadini uno spazio pregiato nel centro città” (Michele Bertini?). È questo il nuovo mantra delle istituzioni a partire dal 2015: ridare il Macello alla popolazione. Ogni pretesto è buono per attaccare e squalificare l’attività del Molino. “Chiunque può passeggiare la domenica mattina nei pressi dell’ex-Macello e si accorge della presenza di rifiuti, di… di degrado, insomma, e questo è un vero peccato e questo non bisogna più tollerarlo” (Michele Bertini?). Fra i tanti attacchi che la politica muove contro il Molino in quegli anni vi è l’accusa di non pagare le fatture dell’elettricità. “Tutte le bollette della AIL dell’elettricità sono sempre state pagate, come gli abbonamenti per internet. Cioè, fatta eccezione per l’affitto, che c’era una convenzione ad uso, tutto il resto è sempre stato pagato grazie all’attività che faceva il Molino, quindi veniva tutto regolarmente pagato”. “A me sembra anche giusto, cioè, almeno l’acqua e l’elettricità la paghi. Basta, non è che siamo qua a scrocco. Nel senso, abbiamo rivitalizzato un posto che era fermo da decenni”. “A chi dice che non si pagano le tasse, farei anche notare che se sei un’associazione senza scopo di lucro vieni esentato dal pagamento delle tasse. Quindi, come tante altre associazioni sono esentate dal pagamento delle tasse, lo siamo anche noi, proprio perché reinvestivamo tutto l’utile nelle attività del centro sociale. Non è che qualcuno si arricchiva alle spalle, era un’attività senza scopo di lucro”. “Qui se vuoi apriamo il campo della strumentalizzazione, perché ci sono passati tutti i politici, tutti, soprattutto quelli che avevano poca carne al fuoco come argomenti. Perché in ogni rinnovo del Consiglio comunale di Lugano c’era sempre, sempre qualche candidato o qualche candidata che dava addosso al Molino. E alla fine l’avevamo capita, perché dicevamo che attaccare il Molino, è come sparare sulla Croce Rossa, perché tanto non ti risponderà indietro nessuno.”

Intanto dal 2015, senza clamori, il Cantone verserà al Comune di Lugano 50.000 franchi l’anno per le eventuali spese generate dalla presenza del centro. “Volevano che uscissimo, ma non si sa bene per che cosa”. Vengono lanciati nella discussione pubblica tutta una serie di progetti con scarso appoggio politico e senza agganci nella realtà, per cercare di dare un uso diverso agli spazi del Macello. Una cittadella per i bambini e poi una cittadella della solidarietà, lo spostamento delle scuole medie, la nuova sede del Museo di Storia Naturale. Nessuno di questi progetti andrà in porto.

“E qui dobbiamo fare attenzione. Il municipio può concedere una sede alternativa, come la concede a tante altre associazioni, però non deve. Perché tante volte si dice ‘voi dovete trovare una soluzione alternativa’. Noi possiamo trovare una soluzione alternativa” (Michele Bertini?). “Ma vorrebbe dire di nuovo non riconoscere una realtà di autogestione”. “Ma io sono pronto a riconoscere come autorità qualcuno che venga a discutere con me in una maniera cortese, una maniera trasparente dove ci si può guardare negli occhi, dove si può, se caso, firmare un contratto di locazione e avere delle regole chiare per tutti” (Michele Bertini?). “Mi stai dicendo che oggi non avviene?”. “Oggi ciò non avviene” (Michele Bertini?).

“Era stato fatto l’ultimo tentativo nel 2015, tra 1000 critiche interne, era stato fatto questo tentativo di facciata. Era chiaro il tentativo di facciata sia per noi sia per loro. È stato fatto. Questi hanno dall’inizio… si sono posti in una maniera arrogante. Si parlava di non uscire alla stampa e puntualmente Bertini e Borradori uscivano alla stampa con delle informazioni falsate. Il fatto di ridare l’ex-Macello a tutta la popolazione… tutta una serie di panzane che hanno saputo… Bertini e Borradori sono stati due personaggi la cui infamità menzognera ha raggiunto degli apici, secondo me, molto, molto alti”. “Nessuno ha il diritto acquisito di avere degli spazi pubblici ad uso esclusivo per le proprie attività, perché ci sono tantissime associazioni sportive, sociali e culturali che chiedono spazi alla città di Lugano e non li ottengono” (Michele Bertini?).

“Era impossibile andare a sedersi a un tavolo delle trattative con questi personaggi ed era diventato proprio il teatro dell’assurdo di trovarsi con delle persone incapaci e che hanno fatto della forma della menzogna, della non conoscenza della questione, il loro porsi a livello di mediazione”.

“Se conti in ultima battuta, se fosse necessario sloggiarli, evacuare gli stabili con la forza…?”. “Non credo che sia la soluzione migliore questa. Però non può neanche essere la soluzione di sottostare in maniera silenziosa a un ricatto, perché di fatto noi come città oggi sottostiamo a un ricatto. Perché si dice ‘se voi vi immaginate di fare qualsiasi progetto in questo sedime, noi ci comportiamo male, facciamo casino in città, eccetera eccetera’. Questo è un ricatto”. “Comunque parliamo di linguaggi completamente diversi, quindi penso che già io a priori non riesco a vederlo un dialogo”.

“Parliamo ora di autogestione a Lugano. Dopo la riunione di mercoledì tra una delegazione del centro sociale Il Molino e i rappresentanti del municipio, ieri sera è stata occupata per qualche ora una casa disabitata in via Monte Boglia. Un episodio che potrebbe incidere sull’esito delle trattative per liberare gli spazi dell’ex-Macello, dove gli autonomi risiedono attualmente. Partiamo dalla cronaca. Cosa è successo nelle ultime ore?”. “È successo che dopo l’incontro di mercoledì, ieri sera un gruppo di autonomi ha occupato per qualche ora una vecchia casa in via Monte Boglia, dove di casa è anche la Lega dei ticinesi, per inciso. Il tempo, pare, di proiettare un film e di agganciare qualche striscione con la scritta ‘riprendiamoci gli spazi’. Quando gli occupanti se ne sono andati, la situazione è tornata quella di prima” (Reportages).

“La mia impressione personale è che sia una chiara provocazione verso l’autorità, verso il municipio che non fa nient’altro che richiedere, come fa per tutti, di rispettare un minimo di regole di convivenza” (Michele Bertini ?).

Movimenti nuovi al Molino

Diversi gruppi con una chiara visione artistica e socio-culturale confluiscono in particolare nello spazio della Fiaschetteria, che permette una certa autonomia dall’Assemblea e, allo stesso tempo, la possibilità di organizzare concerti ed eventi più piccoli. I Drunken Saillors, vicini all’esperienza del Casotto, che negli anni successivi, staccatisi dal Molino, daranno vita all’esperienza del Morel. Un laboratorio molto interessante di cui, se ce la faremo, parleremo diffusamente in un’altra puntata. E poi un gruppo di artisti che gravita attorno all’etichetta musicale insonnia isterica, che negli anni ha proposto proprio in Fiasca decine e decine di concerti grindcore.

Poi, a livello di trattative, poco altro da segnalare fino al maggio 2019, quando il Consiglio comunale accetta un messaggio municipale con un credito per un concorso internazionale di architettura, che non prevede però la presenza dell’autogestione.

“A Lugano gli autogestiti dovranno abbandonare l’ex-Macello. Ieri sera, infatti, il Consiglio comunale, al termine di un dibattito piuttosto animato, ha accolto un accredito da 450.000 franchi con il quale sarà finanziato un concorso di architettura internazionale con lo scopo di riqualificare l’area” (Reportage).

Intanto in Svizzera e nel mondo prendono forza movimenti nuovi: trans-femministi e antirazzisti, MeeToo e Black Lives Matter. Anche in Ticino io l’8, il collettivo resistiamo. Spinte da energie che filtrano anche all’interno del CSOA. All’ex-Macello, grazie alle nuove energie confluite, si prende possesso di nuovi spazi abbandonati. Uno di questi è la palestra popolare autogestita la Serranda, un luogo che, in poco tempo, diventa punto di riferimento e di scambio.

“Era uno spazio del Molino che si trovava nel fondo, vicino i bagni, in un vecchio garage. Era uno spazio che puntava proprio anche a quello, a non escludere nessuno, sia che sia per questioni di genere o per questioni di ogni tipo… di corporatura e di fisicità, ognuno era libero di esprimersi come riusciva, come voleva. È stato uno spazio anche frequentato da altri tipi di attività, ad esempio corsi di danza, di corpo libero era libero. Venivano svolti dei corsi di autodifesa. Il venerdì sera era sempre il momento del progetto di ginnastica sperimentale, che definirei una sorta di danza sperimentale. Contact si chiamava. Era uno spazio anche rivendicato da chi si definisce come donna. Era una palestra a tutti gli effetti, con tre sacchi da boxe, vari macchinari, vari pesi. L’ho trovata inclusiva e soprattutto, un aspetto che adoravo di quella modalità, è l’assenza di competitività. Erano allenamenti nel concetto di autogestione, cioè chi arrivava, si allenava da solo, con le cuffiette, chi invece si allenava in gruppo, chi ha le competenze le trasmetteva a chi non le aveva. E soprattutto era un luogo gratis, che può sembrare banale, ma in realtà per alcune persone che la frequentavano era abbastanza importante”.

La pandemia e il Molino

E poi, ad inizio 2020, un elemento imprevedibile travolgerà il mondo intero. Anche il Molino dovrà confrontarsi con questa novità.

“Potrebbero essere quindi centinaia le persone infettate dal misterioso virus cinese e non solo 45, come reso noto dalle autorità. I morti sono al momento due e in alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti, sono state rafforzate le misure di prevenzione negli aeroporti, vediamo” (Reportage).

“La primissima iniziativa politica di cui ricordo aver saputo l’annullamento per la pandemia, mi sembra fosse un incontro di Io l’8. Mi ricordo la sensazione che provai quando si disse in Assemblea che quell’iniziativa non ci sarebbe stata per la questione… che sembrava un po’ a tutti esagerata, no? Però, c’era già la sensazione da parte di molti che la cosa non sarebbe stata breve, sarebbe durata, e quindi bisognava un attimo capire come stare dentro una situazione di questo tipo, in cui di fatto ti stanno togliendo la vocazione principale di un centro sociale”.

“C’era chi era più, diciamo, magari più preoccupato, e chi magari si viveva le cose con maggior libertà. Abbiamo sempre forse tenuto in considerazione la sensibilità di ognuno. Però certo che questo ci ha messo in difficoltà”. “Io ho anche questo ricordo che era molto vago all’inizio, no? ‘C’è questo virus, poi chiudiamo per cinque persone, poi quattro, poi più nessuno’. E quindi penso che tutti quanti ci siamo ritrovati un attimo a dover capire quello che ci stava succedendo attorno”. “Come per gran parte delle persone, c’è stato un po’ di disorientamento, no? Riuscire a focalizzare un attimino cosa stesse accadendo”. “Ricordo anche che si pensava magari se lo teniamo aperto e continuiamo a fare cose, può essere proprio la scusante o la motivazione per la quale vengono a sgomberare”. “Però non ci si è, diciamo, scoraggiati nel dire allora stiamo tutti a casa nostra, ma ci continuiamo a vedere per appunto capire come affrontare, perché sì, il covid esiste, ma la gestione emergenziale non la condividevamo. Anzi, eravamo critici, infatti è nato una rivista Ruggiti. Con questo mezzo provavamo anche a dire la nostra su quello che stava accadendo con il covid, ma soprattutto sulle misure repressive di controllo che sono subito arrivate a seguito”.

“Al di là delle questioni scientifiche, sicuramente in una società malata come questa, con questo tipo di produzione industriale, con questo tipo di sanità, non è così improbabile che qualcosa possa intaccare il corpo umano. Poi, sulle dimensioni e sulla gestione, su quanto sia stata ingrandita, sull’incapacità in Europa di confrontarsi con la morte, su interessi, sui tagli negli ospedali, sul vaccino… insomma. Nel discorso talmente ampio, che ha raggiunto un livello di saturazione di gente che riportava, abbiamo cercato più che altro di trovarci dei momenti di confronto tra di noi, per dire ‘va bene, non saremo lo spazio che metterà il tracciamento che farà cose così, però dovremmo poter muoverci con un po’ più di attenzione in questo momento”.

“Si è continuato comunque a fare politica. Si è continuato comunque a trovarsi per fare delle riunioni rispetto a certi temi o certe lotte che si stava portando avanti”. “Poi, se devo essere onesto, è stato gestito un po’ maldestramente, perché magari si faceva bene per certo periodo, poi qualcuno diceva ‘ah, hanno organizzato questa cosa’ e ci arrivavano più di 70 persone e ti dici… Poi si sono riversati tutti alla foce. E con tutto quello che c’è stato, con l’accollo anche lì della foce che ci hanno accusato di essere giù a fare tafferugli. C’è stato un po’ il riflesso di quello che effettivamente era un po’ il Molino nella sua composizione. Tanti pensieri diversi, quindi, di tenere a bada quello che si dice. C’è il medico che dice così perché tutto è una farsa. E l’unica cosa che ci eravamo detti era di evitare di farci sgomberare in questo periodo, che è un periodo di merda”.

Episodio 10: La costruzione del nemico

Introduzione

“I brozzoni, i drogati, covo di zecche… robe di questo tipo”. E voi come rispondete? “Mah, ci ridi sopra. Cioè, se si inizia a dargli corda, è peggio. Magari puoi anche provare a spiegarglielo, magari qualcosa lo capiscono”.

“C’erano un sacco di persone diverse e tutti dicevano quello che pensavano e, cioè, mi rispecchiavo nelle loro idee, anche se erano tutte diverse. Boh, io mi sentivo sempre a mio agio, anche se io non sono di solito una persona che parla tanto, magari davanti a tante persone”. “E si dovrebbe conoscere un qualcosa di nuovo. Come ci si pone all’interno di un gruppo libero”. “A livello di cultura, quello che facevano e proponevano veramente di tutto, anche a livello di temi di discussione. Potevi proporre di tutto, chiunque poteva fare qualcosa”. “Non parlerei di accoglienza, ma quasi di una cosa che si produce naturalmente. Cioè, ovviamente ti devi integrare in un gruppo, però è già di per sé un ambiente integrativo”. “Abbiamo cucinato una volta, non ti fanno mai sentire come un novellino che deve fare esperienza all’interno, cioè, ti accolgono subito, come se fossi uno di loro, perché alla fine sono tutti uguali”. “C’era molto quest’idea del Molino come posto in cui tuo figlio non può andare. Per molti genitori il Molino ‘no, vai lì, poi fumi o bevi’. Però in realtà io trovo che alla fine sono cose che si fanno ovunque. Al Molino invece era un ambiente più protetto, nel senso che se stavi male c’era qualcuno che ti aiutava”. “Sì, che poi comunque le persone facevano quasi un po’ da genitori, cioè, non è che stavano lì a controllare quello che facevi, però comunque c’era questa sensazione un po’ di famiglia, che potevi fidarti tutti se avevi bisogno di qualsiasi cosa, penso. In generale, anche se stavamo un po’ male, tipo alle assemblee… se non stavamo benissimo, c’era sempre qualcuno che veniva lì a chiederci ‘tutto bene?’. Che sono cose piccole, però io le tengo molto in conto, perché non è così da nessun’altra parte qua”. “Tante cose non sono così da nessun’altra parte. Purtroppo, lo erano solo al Molino e lo sono ancora in quello che è il gruppo del Molino”.

Questo è il 10º episodio di Macerie e si intitola ‘La costruzione del nemico’.

Le tensioni all’interno del Molino durante la pandemia

Certo è una grande domanda, ma come possiamo cambiare questo presente? Questo stato di cose è sempre più ingiusto? Le modalità del Molino possono anche non piacerci, ma cosa possiamo fare d’altro? Che strumenti abbiamo?

“È fondamentale, con questo strumento dell’auto-organizzazione, dell’autogestione, trovare dei modi di lottare contro queste esistenze, di aprire degli squarci e anche comunicare a molte persone che è possibile organizzarsi in modo diverso e agire in modo diverso, senza bisogno di una delega, senza bisogno di un partito, senza bisogno dello Stato che ti dica cosa fare. Dà molta forza. Io come individuo posso fare delle cose, perché spesso quello che ci fanno sentire le istituzioni… ci danno degli spazi di libertà molto ristretti, ma ci fanno sentire anche molto impotenti. Mentre viene cancellata la forza di un gruppo anche di poche persone, una ventina di persone che decide ‘noi vogliamo portare avanti questa lotta, col tempo che abbiamo, con le modalità, con i metodi che decidiamo noi’, questo può fare anche in un contesto come quello ticinese, può fare una differenza”.

L’autunno del 2020, con l’introduzione massiccia delle misure anti-covid, è stato un periodo strano. Ormai forse ci siamo abituati a questa inquietante nuova normalità. Ma quelli erano mesi in cui si iniziava a respirare un’aria davvero pesante.

“Il governo ticinese ha annunciato nuove misure anti-pandemia. Da domani, a livello cantonale, viene imposto il limite di cinque persone per assembramenti negli spazi pubblici, come pure per manifestazioni pubbliche e private”. “Anche voi cittadini avete un ruolo fondamentale che è quello di rimanere a casa e rispettare le direttive”. “In questa situazione straordinaria, la polizia è attiva. Sono state emanate delle regole basilari che tutti avete già sentito più volte. Cerchiamo di rispettale insieme e presto ritorneremo alla normalità” (Reportage).

“Le strade erano praticamente vuote, la gente non si incontrava più e quindi è chiaro che per uno spazio come il Molino questo è stato un momento abbastanza importante, uno spazio che vive di fondamentalmente socialità. Il Molino ha cercato in ogni momento di capire cosa stesse succedendo all’esterno, di ragionare in modo autonomo con i principi dell’autogestione e dell’autodeterminazione, su cosa fare. È chiaro che non è stato facile, nel momento dove non ci si poteva incontrare più di cinque persone, capire se chiudere o rimanere aperti”. “E quindi è stato uno spazio molto importante perché permetteva comunque alla gente di dividersi, permetteva alle persone comunque di stare assieme e continuare a creare conflitto, fondamentalmente, analisi e momenti di vita collettiva”. “E allo stesso tempo chiaro, generava anche situazioni di tensioni, di non chiarezza rispetto a quello che stava succedendo”. “Quindi le tensioni che sono scoppiate nel mondo di tutti i giorni, anche all’interno del Molino, in quel periodo ci sono state delle situazioni non facili”.

La manifestazione in piazza Molino Nuovo del 30 ottobre 2020

Per cercare di affrontare collettivamente queste tensioni, alcune persone vicino al Molino decidono di organizzare per il 30 ottobre un momento di riflessione sul tema del covid e cercare di portare una critica da sinistra alla situazione. “Si è deciso di, a un certo punto, sì, di uscire, di avere una presenza, di mantenere una presenza in strada perché il senso di chiusura stava diventando un po’ troppo forte”. “Era anche quel periodo in cui in tutta Europa si iniziava a scendere in strada proprio anche contro le restrizioni”. “L’idea di fare quell’iniziativa fu appunto di fare una sorta di assemblea aperta, dove si potesse parlare liberamente, dove ognuno potesse esprimere un po’ la sua visione sulla situazione, sulle sue misure di contrasto alla pandemia, eccetera, eccetera”.

La serata passerà alla cronaca, soprattutto per alcuni episodi puntuali, che saranno però il punto d’inizio di una narrazione diversa. L’accento verrà posto su alcune scritte sui muri e soprattutto su una testata, tirata da una giovane manifestante, a una giornalista.

“Quello che so è che di solito noi ai giornalisti comunichiamo sempre che non sono i benvenuti, che ci sono però dei volantini, ci sono degli striscioni. Quella sera, io ricordo che ?. Abbiamo chiesto di partecipare, semmai come persone, ma non con telecamera, microfoni, eccetera. E lei non voleva andare via. Io quello che ho vissuto dopo è che questa giornalista è rimasta lì e piangeva e quindi sono andata vedere che… non sapevo cosa fosse successo ancora. E le ho detto ‘ma c’è qualcosa che non va?’ e lei mi ha detto ‘ho ricevuto – adesso non ricordo se parlava di testata o sberla – mi hanno cacciata’”. “E dopo un po’, è arrivata una ragazza, molto nervosa della mia presenza, mi ha detto di andarmene. Io le ho ribadito che non me ne sarei andata perché era suolo pubblico. Non le andava bene e quindi, dopo essersi allontanata, ha deciso di tornare dicendomi di andarmene e mi ha dato una bella testata sul naso” (Giornalista).

Il tono della giornalista in questa intervista non appare molto drammatico o spaventato. Nelle dichiarazioni successive sembra addirittura relativizzare l’accaduto: “Mi è dispiaciuto che per una persona violenta tutto il gruppo di manifestanti viene visto come delle persone violente, intolleranti, che sicuramente non è così”.

Eppure, l’indomani, i commenti indignati arriveranno da ogni parte. L’editoriale su uno dei quotidiani del Cantone riporterà:

Un gesto grave, che trasforma quei quattro figli di papà che giocano a fare i proletari in fascisti patentati.

“Allora, bastava chiaramente prendere le distanze il giorno dopo. Questo non è avvenuto. Anzi, abbiamo capito invece che c’è una sorta di giustificazione di base. Quindi, da questo profilo, per noi è chiarissimo. È quello il nucleo da cui sono partiti questi atti che sono assolutamente, mi permetta di dire, disdicevoli” (Marco Borradori).

“Non ti dissoci… Poi dopo magari, ma a livello personale qualcuno si sarà chiarito con chi ha deciso di fare questo gesto che poi effettivamente ha avuto una ricaduta di un certo tipo. Probabilmente, la persona che ha scelto di fare questa roba manco ci ha pensato a questo, al tipo di strumentalizzazione o di ricadute che potesse avere”. “Quel gesto aveva creato tanti, tanti scazzi internamente. Poi a livello pubblico non ci si è eventualmente dissociati dal gesto, ma a livello interno se ne è parlato molto, con anche delle visioni contrastanti, anche con un livello abbastanza acceso, perché comunque la modalità, il gesto a molte persone non era piaciuto”.

“C’è una bella differenza tra il dissociarsi da una cosa e giustificare o assumere una tal cosa come gesto di rivendicazione politica, almeno, secondo me c’è una differenza”. “È vero che poi dopo c’è stato anche un corteo spontaneo verso il centro città”.

Dopo il passaggio del corteo, sui muri della città comparvero diverse scritte. “Hanno lasciato un po’,tra virgolette, fare un pochino quello che si voleva. Mi ricordo che tutti ci dicevamo ‘ah, non si vede neanche uno sbirro in borghese’, o così. Mi ricordo che avevo proprio avuto quella percezione di dire ‘mah, chissà, forse ci fanno una specie di agguato alla fine’, così”.

“Atti anche di violenza. C’è stato anche un atto di violenza, comunque molto grave nei confronti di una giornalista. L’imbrattamento dei muri, che sono qualcosa veramente, se mi permette, anche di odioso perché non portano beneficio a chi lo fa e portano un maleficio, portano danno a chi lo subisce” (Marco Borradori).

“Non so da che mondo e mondo, è sempre stato abbastanza bello, diffuso e neanche particolarmente problematico scrive sui muri di una città, nel centro delle città. Cioè, si parla di scritte fatte su un arredo urbano che fa veramente schifo e che quindi fondamentalmente poi abbelliscono anche secondo me”.

“Perché dobbiamo assistere senza reagire quando delle persone che proclamano l’autogestione, che stanno in un luogo comunque pregiato, che non pagano l’affitto, decidono di andare fuori per una manifestazione spontanea, scendono verso la città, imbrattano muri con scritte ingiuriose, anarchiche, di vario genere. E noi dovremmo rimanere con le mani in mano? Secondo me questo è veramente chiedere troppo” (Marco Borradori).

“È assurdo pensare che sia normale doversi scandalizzare o addirittura avviare processi di sgombero di un centro sociale perché qualcuno ha fatto delle scritte”. “Per carità, è stato un gesto forte, però di base non è che si è ribaltata la città. Quindi ecco, nel senso anche un po’ una proporzione di fronte alle cose. ‘Ok, questa è l’ultima, il Molino ha davvero cagato fuori dal vaso – detta proprio terre à terre – mò si sgombera’”.

“Si può riconoscere qualsiasi tipo di libertà all’autogestione. Però viviamo in una società civile dove andare a imbrattare muri, che vuol dire usare violenza contro cose e anche addirittura edifici che hanno un valore storico. Nella mia ottica, comunque, è qualcosa che non si deve fare” (Marco Borradori).

“È stata sicuramente strumentalizzata perché ha fatto molto strano poi tutto questo ripercuotersi sui media. Sicuramente è stata fuori luogo, ma è stata usata, probabilmente a me vien da pensare, un po’ in un possibile disegno per arrivare poi agli estremi per uno sgombero”. “Forse è la prima volta che c’è comunque una maggioranza, seppur risicata, che è disponibile a prendere in considerazione anche l’eventualità di uno sgombero” (Marco Borradori).

“Penso che il fatto di uscire di più, diciamo, dalle mura dell’ex-Macello e del Molino, ha comunque creato una sorta di reazione. Uno dei limiti di un posto dei centri sociali è quello di rischiare di isolarsi dal resto della società e non interagire e quindi, automaticamente, non dare più fastidio alla città, al suo funzionamento. Cosa che, in un’ottica di cambiamento sociale è di fondamentale importanza”.

Il progetto Matrix

Con un tempismo perfetto, poche settimane dopo la manifestazione in piazza Molino Nuovo viene presentato il progetto vincitore del concorso di architettura per la riqualifica dell’ex-Macello. Viene premiato il progetto Matrix. La cosa che mi sono sempre chiesto è: nessuno ha visto il film?

Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos’è. Pillola azzurra, fine della storia. Pillola rossa, resti nel Paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio.

“Una qualifica interessante, intelligente a favore di tutta la cittadinanza, a favore anche dell’Università. Ci saranno delle camere per gli studenti, ci saranno dei ristoranti, dei caffè, ci saranno gli spazi coworking e via discorrendo. E in quell’occasione si era detto da parte nostra, in modo chiarissimo, che non ci sarebbe stato spazio per l’autogestione” (Marco Borradori).

“Il progetto Matrix era di fare quello che si fa già al Molino in una forma istituzionale, quella istituzionalizzare le forme di cultura, di sapere, di fare uno spazio per i giovani. In fondo, queste cose al Molino c’erano già. Mi ricordo che le prime volte che ci è stato presentato il progetto, mi era sembrato qualcosa del tipo ‘ma perché dovremmo fare qualcosa d’altro quando noi facciamo già questo?’”. “Sì, un alibi in altri posti, un posto che prima era occupato dicono ‘l’abbiamo bisogno per fare l’associazione, oppure la sede della Croce Rossa’. Non so, delle cose sempre un po’ sociali, tra virgolette, o comunque che di fronte all’opinione pubblica potrebbero sembrare lodevoli e quindi ‘perché questi non se ne vanno, vedi, non gli interessa la popolazione’”.

Uno dei tentativi di costruire questo alibi sembrerebbe avvenire una sera di inverno, quando il municipale liberale Michele Bertini ha preso informalmente contatto con alcuni componenti del collettivo Morel, che da anni stava gestendo, nonostante la scarsa collaborazione delle autorità cittadine, l’omonimo spazio in via Adamini. “Uno dei capofila degli oppositori del Macello era il signor Bertini, che si è presentato a Morel. Ci ha presentato la possibilità di entrare come associazione all’interno del nuovo progetto dell’ex-Macello, in quanto progetto Matrix, in quanto centro culturale. ‘Vi diamo l’occasione di poter continuare il vostro percorso, però dandovi questa occasione vi infiliamo all’interno di questa dinamica’. Quindi noi sgombriamo un centro sociale per preparare un centro culturale, nel quale poi voi vi inserireste per poter portare avanti i vostri percorsi. E per loro non diventa interessante quello che stai facendo, il tuo modello di gestione. Per loro diventa interessante perché puoi essere inserita all’interno di un progetto, però, che legittimerebbe lo sgombero di un centro sociale e avere un po’ la chiave di risoluzione, perché ‘sì, noi stiamo sgomberando un centro sociale, però vi portiamo comunque un’esperienza autogestita’”. “Inutile dire che l’incontro è finito con un clamoroso no da parte nostra. Siamo subito riusciti apertamente per smarcarsi da questo tentativo inutile di far finta che Morel e il Molino fossero sostituibili l’uno con l’altro”. “Per noi era così assurda la proposta e la modalità, cioè era proprio totalmente inappropriato e probabilmente, non lo so, magari anche lui ha capito che era completamente fuori luogo la questione che è finito…”. “Non so quello che si aspettava”.

“Sì, c’è stato proprio un periodo di escalation repressiva da parte della polizia rispetto agli spazi pubblici. È chiaro che siamo entrati in un contesto in un momento in cui le restrizioni cosiddette sanitarie diventavano sempre più forti. Di base c’era il fatto che la polizia cominciava a intervenire nelle strade in modo sistematico, disarticolando tutte le situazioni di libera associazione tra individui. Sono uscite varie cose: il famoso caso del pestaggio del ragazzo vicino al LAC, gli episodi della Foce, gli episodi in centro”.

La repressione della manifestazione dell’8 marzo

“È chiaro quindi che, anche da parte nostra, a livello di Assemblea, c’era la sensazione che qualsiasi tipo di proposta si facesse, si andava incontro a possibili confronti con la polizia e anche con l’esposizione mediatica. E poi sì dopo, per arrivare alla manifestazione dell’8 marzo. Lì è stato proprio il momento in cui effettivamente si è deciso di non accettare, di non accettare la normalizzazione che si andava impostando, secondo la quale tu fai un qualsiasi tipo di chiamata – addirittura quella era una chiamata per un corteo – e ti arrivano gli antisommossa e ti sbarrano la strada. Quando si è deciso di fare l’iniziativa dell’8 marzo a Lugano, si è deciso di farla a Lugano, consapevoli del fatto che si potesse andare incontro a un municipio che non ce lo avrebbe permesso. Non si può neanche vivere sotto il ricatto di un municipio chi ti dice ‘da adesso in poi non scendete più in strada perché la prossima volta vi sgomberiamo’. Era un ricatto che è diventato fin da subito inaccettabile.

“È una manifestazione non autorizzata. Si è svolta stasera sul piazzale della stazione ferroviaria di Lugano. È durata circa 2 ore e ha visto l’intervento della polizia con agenti antisommossa. Alcuni manifestanti, erano una sessantina, hanno lanciato oggetti in direzione degli agenti” (Reportage).

“All’inizio eravamo lì in stazione, tranquilli. Avevamo su delle maschere, delle bandane, cose così. E l’idea era quella di fare un corteo fino ad arrivare al Macello”. “E da subito si sente, come si può dire, una presenza poliziesca molto forte”. “E arrivando in stazione erano già pronti per accerchiarci. Noi non abbiamo avuto la velocità di intuirlo subito, ma la polizia ha immediatamente accerchiato il concentramento e il loro intento era quello di non farci partire”.

“C’era la votazione sulla legge per la dissimulazione del volto”. “Si tratta di una legge che ha due sfaccettature: la paura verso la religione islamica. In realtà, se la analizziamo, la dissimulazione del volto è uno dei pochi mezzi di autodifesa che hai di fronte alla repressione. Oltre a essere una legge islamofoba, diventa pure una legge repressiva”. “E quindi ci siamo detti ‘ok, cosa facciamo? Sforziamo un po’ la cosa e proviamo a superare il cordone o accettiamo di fermarci?’. C’era anche la questione di come deciderlo”.

“Non sono rimasta lì per tutto il tempo perché non avevo mai vissuto un momento così. Con la polizia non avevo mai visto così tanta repressione, diciamo, anche solo che erano lì a chiudere le uscite”. “Hanno forzato questo a questa rottura. Sicuramente noi non abbiamo detto di no alla forzatura . Potevamo prendere e andare a casa, dirci ‘vabbè, abbiamo fatto il nostro presidio e ce ne andiamo’. Noi, quel giorno, volevamo riscendere in strada e quindi ci siamo detti ‘no, lo vogliamo fare’. Siamo stati 2-3 ore in stazione, accerchiati dagli sbirri. A una certa si intravvede un varco, chissà il varco lasciato aperto apposta o no, eccetera eccetera. O non ci si è pensato un momento”. “E lì è partito un po di casino, un sacco di spray al pepe, ma proprio tanto”. “Ci si è trovati brancanti in un contesto di ?, con tre file di antisommossa”. “Hanno bloccato anche da dietro, quindi da un lato avevamo il binario, dall’altro il muro, quindi non si capiva neanche bene… Eravamo fondamentalmente anche nascosti. Quindi era anche un luogo in cui la polizia poteva fare un po’ quello che voleva. Fino a che poi siamo fatti ritornare tutti verso la zona dove eravamo prima, quindi davanti allo scalone e lì ci hanno proprio accerchiati. La folla è stata accerchiata e non c’era più via d’uscita. Erano molto violenti, erano molto ‘okay, adesso vi dovete preparare a uscire’, poi facevano il conto alla rovescia. C’era molta aria di guerra, proprio. Era bruttissimo”. “Mani in alto, documenti alla mano e vi chiameremo uno a uno per identificarvi e la manifestazione è finita. Tirava fuori a uno a uno le persone picchiandole e tirandogli calci, manganellate, sprayando, chi ammanettato per terra, chi preso a calci in faccia”. “Anche quando ti prendevano e ti portavano fuori o ti schedavano, erano proprio… boh, schifosi”. ”C’è un nostro amico che gli hanno rotto quattro ossa della gamba, con tipo due colpi di manganello”. “L’accanimento sbirresco sui corpi delle persone. Con questo non si vuole entrare in una questione vittimista, ma quando quella che viene definita la forza dell’ordine abusa di corpi, fondamentalmente, in quel momento indifesi e non protetti, diventa la forma in cui lo Stato ti vuole far pagare determinate cose”.

“Fondamentalmente, si cerca di puntare il dito – e i media, purtroppo, su questo sono molto servili, oso dire – solo su atti violenti, senza prendere in considerazione tutto quello che invece c’è dietro, cioè le istanze che invece vengono portate durante le manifestazioni, durante eventi, eccetera, perché quello è quello che è importante”. Queste sono le parole dell’avvocata Immacolata Ilio Rezzonico, che da anni segue da vicino molte attività del Movimento. “Si è vista la macchina repressiva della polizia, fondamentalmente, perché una manifestazione che portava avanti delle idee concrete per cercare proprio di stimolare, e invece vengono sempre stigmatizzate come qualcosa che ‘oddio, cosa sta succedendo, è arrivato il nemico pubblico numero uno, adesso succederà il caos in città’. Il caos in città, alla fine, lo crea la polizia che si mette in una situazione di attacco, perché fondamentalmente le azioni della polizia in queste manifestazioni, dall’8 marzo in avanti, sono state manifestazioni di attacchi. È come se avessero il lasciapassare per poter agire violentemente. C’è un uso spropositato di spray al peperoncino, lacrimogeni, manganelli, proiettili di gomma, cioè, non è che stiamo parlando di una guerra”.

“Tra di noi ci si è detti se ci stanno dando le botte, vuol dire che qualcosa stiamo facendo. L’autogestione buona e l’autogestione cattiva. Ma di cosa state parlando? L’autogestione è un conflitto, poi ognuno la coniuga come vuole, ma l’autogestione è capacità di creare e ridefinire altri percorsi. E negli altri percorsi, fondamentalmente, ti scontri con un sistema dominante di oppressione. E quindi entra, il conflitto entra. Lo vuoi sul lato culturale, lo vuoi sul lato sociale, lo vuoi con quello che vuoi. Ma il conflitto, il conflitto in una forma entra. E lì ci si è accorti che probabilmente in qualche maniera stavamo dando fastidio e che non siamo più un numero esiguo, ma che c’era un certo numero di persone che iniziava a capire. E lì non hanno esitato”.

“Per quanto mi riguarda, è anni che dico che bisogna arrivare a strapparsi il dente, perché dietro al tema dell’autogestione si nascondono facinorosi e persone che non perdono occasione per attaccare le forze dell’ordine, per fare vandalismi, per rovinare la vita della nostra città”.

“Ma almeno ci fosse stata una pericolosità sociale, almeno quella sera ci fossero state scene di guerriglia urbana per tutta la notte”. “Quello che è successo in stazione era proprio quello che volevano, una scusa per poi sgomberare”. “Avevano bisogno a livello di immagine, qualcosa di forte. Perché poi, dopo questo corteo, da lì, c’è stato subito ‘okay, sgomberare il Molino’ e da lì non si è più tornati indietro”. “Beh, la prima avvisaglia di sgombero è stata subito dopo ottobre, dopo la questione del covid è già si è dobbiamo sgomberare. E subito dopo arriva questo, il secondo tentativo di ?. Non si può più accettare una cosa del genere, no? Le botte degli sbirri, la schedatura, tutte le persone di quella sera sono state schedate. E lì è iniziata questa narrazione molto pericolosa che ha portato poi tutto quello che è successo dopo”.

“Questa autogestione che nasconde comportamenti incivili, nasconde vandalismi, nasconde violenza, e non si può scendere a compromessi”. “Effettivamente, c’è sempre stata la minaccia di sgombero all’indomani di qualsiasi tipo… di quasi ogni manifestazione del Molino in piazza o di corteo. Perché c’era sempre il politico di turno che faceva un’interpellanza, una volta per le scritte, una volta per i costi dell’intervento di polizia. La differenza stava nel fatto che probabilmente per la prima volta c’era il sindaco che parlava apertamente di questa possibilità che poi effettivamente ha fatto questa disdetta”.

“Nessuno ce l’ha con il concetto di autogestione come lo si può intendere, come qualcosa di alternativo, cultura alternativa, concerti alternativi. Questa è semplicemente inciviltà” (Marco Borradori). “Premetto che io ho sempre pensato a Borradori come una persona che fosse capace di capire certe situazioni, in cui non volesse troppo sporcarsi le mani. Non riesco a capire se l’accelerazione avuta da Borradori sia legata a un risentimento personale – e penso di sì –, ma anche riflessa da una pressione dei vertici del suo partito che gli hanno detto ‘questo posto non deve più esistere, va sgomberato’. Quando Gobbi dice in un’intervista prima dello sgombero ‘io il Macello l’avrei tirato giù tempo fa’, chiaro che dice una certa cosa”. “Norman Gobbi leghista avrebbe già sbaraccato il Macello diversi anni fa” (Gobbi).

I preparativi allo sgombero

“E a un certo punto, un giorno si ritrova appeso al cancello del Molino un foglio. Proprio attaccata con lo scotch, lettera proprio seria e ufficiale del municipio…” “Venti giorni di tempo per andarsene dall’ex-Macello. Il municipio ha inoltrato una disdetta formale agli autogestiti, che in poche parole significa sgombero” (Reportage). Mi sembra che a livello formale non siano stati seguiti veramente i passi che dovevano essere eseguiti. Mi sembra veramente più un atto da medioevo, che si affiggevano sul sulle porte le condanne a morte fondamentalmente, no? Ma fa parte, secondo me anche dello stato di polizia che ci stiamo vivendo. Quindi da una parte mi fa sorridere, dall’altra parte mi preoccupa, perché vedo proprio una situazione dove l’istituzione pensa di poter far tutto quello che vuole, senza neanche più seguire delle formalità, pretendendo invece che siano gli altri a dover sottostare a delle norme veri e ritenendo quindi chi secondo loro non sottostà il delinquente, no? Cioè, è lampante per tutto quello che è successo che chi non ha seguito le leggi sono state proprio le istituzioni”.

“La prima risposta che è stata data dopo i vari editti, è stata questa famosa Assemblea pubblica che è stata fatta al foce, in cui hanno partecipato 200-250 persone. Secondo me è un vero esercizio di partecipazione dal basso, reale, rispettosa. Ogni intervento veniva sottolineato da un applauso, anche quelli non condivisi, fondamentalmente”.

“Sì, mi ricordo lunghe assemblee. Sicuramente diverse opinioni. C’erano anche persone che frequentavano il Molino prima e che negli ultimi anni non erano più attive, ma sono venute in Assemblea a portare la loro opinione, che sicuramente era importante per il confronto”.

“Andammo più volte in Assemblea, io ci andai. Ci fu anche un ritorno della vecchia generazione, proprio in virtù di tentare di salvare l’esperienza Molino. Ma, probabilmente, fu tardi, nel senso che io ho avuto la sensazione, per la prima volta all’interno di un’Assemblea del Molino, di essere in minoranza e di essere escluso. Mi sono anche messo a disposizione per essere io il ricorrente in virtù dell’associazione Alba, nei confronti dello sgombero del Molino. Avevamo tutti gli elementi per poter vincere un eventuale ricorso allo sgombero, di poter andare a dialogare anche con il municipio di Lugano. Ecco, non c’è stato niente di tutto questo. Però, ecco, devo dire anche che non ho avuto il coraggio di giudicarli perché da qualche parte li ho capiti. Quindi mi sono anche detto che forse è giusto che ci sia un accadimento che possa rimescolare un po’ le carte rispetto alla situazione di Stasi che si era creata”.

“Si è scelto di non fare ricorso dopo lunghe, lunghe e lunghe discussioni. Chiaramente era una possibilità che avrebbe comunque potuto rallentare, perlomeno la cosa, eccetera,”. “Ma di base ci si rendeva conto che probabilmente prendere questa decisione avrebbe avuto delle conseguenze, anche forti. Però diciamo che ci si voleva mettere in gioco anche su questo aspetto qua”. “Noi questo spazio non lo lasciamo, ma allo stesso tempo non ci sottomettiamo. Se dovrà avvenire uno sgombero, avverrà”. “A un certo punto, se continui a parlare di sgombero e arrivi al punto di affiggere questa decisione sulla porta di casa nostra, a questo punto assumitela”. “C’eravamo anche un po’ assunti, appunto, questo discorso. Che abbiamo alzato la conflittualità, abbiamo portato delle pratiche di strada e quindi, dicevamo, ci assumiamo anche le conseguenze. E c’era anche tutta l’esperienza del Morel, che ricordo aveva anche un po’ portato un consiglio. Nel senso che sì, loro avevano dialogato, eccetera, ma poi è finito in niente, hanno dovuto chiudere”.

“Da lì, ogni giorno poteva essere un ipotetico giorno in cui venivano a sgomberare”. “Per due mesi c’è stato una turnistica di picchetti interni, di compagni che hanno deciso di dormire all’interno dello spazio o di effettuare dei turni esterni, nell’obiettivo di opporre una forma di resistenza a tutti gli effetti. Si riuscirà a fare una resistenza di 2 ore, 12 ore, 24 ore, due giorni… Prima o poi, è inevitabile che il rapporto di mezzi tra lo Stato e l’Assemblea dello CSOA Molino sia abbastanza chiaro”.

“Per me personalmente è stato un mese molto interessante e stimolante, che mi ha dato tanto, però anche tanto stancante, ogni tanto dicevi, non so, ‘ma basta, venite a sgomberarlo sto poso o cosa?’, così la finiamo”. “Personalmente, io penso che abbiamo fatto, boh, la scelta giusta non lo so, però la scelta che a me più risuona, nella quale più mi ci ritrovo a livello di modo di lottare. Poi se è quella più giusta, questo non lo so”.

Per dare una risposta alle mosse del municipio viene lanciato un corteo per sabato 29 maggio 2021 contro lo sgombero e a difesa degli spazi liberati autogestiti. “L’Assemblea, dopo che era quindi quella del lunedì prima di questo corteo, quindi l’ultima Assemblea che si è svolta all’interno degli spazi dell’ex-Macello. Praticamente si sono presentati la Valenzano e Lombardi. Praticamente, hanno scritto una mail verso le 19:00 più o meno, dicendo ‘vorremmo passare in Assemblea perché… e mettevano una certa urgenza. Quindi alcune persone escono, appunto, e si trovano Lombardi e la Valenzano che ribadiscono ‘siamo qua informalmente’, dicendo pure gli altri municipali non lo sanno, quindi stiamo anche rischiando di finire sul Mattino della Domenica. Cioè, proprio questa frase, mettendola anche proprio come che loro due fossero un po’ quelli che si opponevano allo sgombero. E le persone che sono uscite gli hanno detto ‘guarda, non possiamo scegliere solo noi. Riporteremo che c’è la vostra volontà di parlare con l’Assemblea del Molino, prenderemo una decisione e faremo sapere’. Poi durante l’Assemblea se n’è parlato, si è deciso di prendersi un attimo di tempo perché c’erano comunque dei pensieri anche un po’ differenti. Chi era strategicamente magari anche un po’ più per il dialogo, chi invece diceva un no netto ‘io con queste persone proprio non ci voglio avere niente a che fare, non ci voglio parlare’. E quindi ci siamo detti ‘magari lasciamo passare il corteo e poi riprendiamo in mano questo punto qua’. Io personalmente ero sulla visione di proprio non parlarci, perché mi puzzava un po’ la cosa. Però capivo anche la posizione di chi diceva ‘però almeno a vedere cosa hanno da dire e capire…’. Quindi, diciamo, queste erano un po’ le due visioni e ci siamo detti ‘rimandiamo al lunedì dopo e lasciano passare il corteo. Vediamo come va’.

Non ci sarà un’altra Assemblea dentro al Macello per continuare la discussione. Il sabato successivo, con il consenso anche dei due municipali che si erano presentati al cancello, verrà sgomberato il centro sociale. “Alla luce di tutti gli eventi successivi, mi sembra proprio che sia stato fatto quasi ad arte, questo voler colpevolizzare il Molino e le persone che ci gravitano intorno per poter arrivare a dire ‘sono il nemico dell’istituzione, soprattutto del Comune’. E quindi sì, mi sembra proprio così (Avv. Immacolata Iglio Rezzonico).

Episodio 11: Morel e l’autogestione ‘buona’

Introduzione

“Questo era l’ufficio grafico. Questa era la sala espositiva, la prima di quelle che poi sono diventate due sale espositive, la prima sala espositiva di Morel. Si scende in quello che noi abbiamo definito come spazio condiviso. Era un po’ la vetrata, quindi al piano terra, è diventato un po’ una sorta di piccolo coworking. Noi per necessità l’abbiamo diviso e insonorizzato, perché questa parte, che una volta erano gli uffici amministrativi del garage, l’abbiamo fatto diventare la sala concerti”.

Pochi passi dietro al centro della cultura ufficiale della città di Lugano, il Lac, trova spazio un edificio strano, qualcosa che non dovrebbe essere lì, il rimasuglio di una città che non esiste più, ma che incredibilmente non è stato ancora cancellato dalla speculazione edilizia. Le lettere gialle dell’insegna si vedono da lontano: Morel.

“Questo grande hangar, che poi ha gli accessi a tre tunnel che permettono di accedere a tutto il resto del garage che è vastissimo. Quella tutta a sinistra ti porta nella zona più interrata del sedime. L’abbiamo utilizzato per alcuni after-party. La parte dedicata ai laboratori per il legno e per il ferro specialmente, e se si continua dopo l’officina, si arriva in un altro spazio che era ai tempi un autolavaggio che è stato tramutato in un birrificio. Prima di quella zona lì, sulla sinistra, c’è l’accesso diretto a quello che è poi il condominio abitativo”. E nel periodo di massima occupazione quanta gente viveva? “Fino a 21 persone, sì, per un discreto periodo”.

Questo è l’11° episodio di Macerie. Si intitola ‘Morel, Casotto e l’autogestione buona’.

Prima del Morel

In questo 11º episodio di Macerie ci permettiamo una divagazione, per raccontare alcune realtà non istituzionali che si sono sviluppate a Lugano nell’ultimo decennio, con finalità e strumenti di gestione molto diverse rispetto al Molino. Alcune radici comuni, ma modalità d’azione, comunicazione e obiettivi differenti. Forse, proprio per queste differenze, c’è chi ha cercato di definire autogestione buona quella votata alla curatela artistica del gruppo Morel, e quella cattiva politica e antagonista del CSOA Molino.

Ma partiamo dall’inizio. Siamo nel 2012.

“Al tempo avevamo 18-19 anni ed era un po’ un momento dove a Lugano sentivamo la mancanza di situazioni che promuovessero un certo tipo di eventi, specialmente all’inizio eravamo molto legati all’ambito musicale. Allora abbiamo fondato appunto questa associazione, Drunken Sailors. C’erano, appunto, moving ground e sound followers, incominciavano a suonare i ?, c’era il primo gruppo di Terry Blue. Abbiamo preso contatti con diversi bar e locali del luganese, dove abbiamo presentato queste serate. Penso che questo periodo è durato più o un anno, un anno e mezzo. Abbiamo deciso un po’ di smettere con il rapporto con queste attività commerciali, perché ti devi interfacciare un po’ con quelle che sono le esigenze, anche spesso prettamente economiche, di gestori di attività commerciali che chiaramente ti limitano un po’ nella possibilità di formare un ambiente o un’attività interessante. E quindi questa cosa, a distanza di un anno, un anno e mezzo, ha incominciato a diventare un po’ al limite. Anche perché l’interesse da parte della gente era tanto, quindi spesso anche ci trovavamo con i locali un po’ troppo pieni e anche a dover rispondere alla polizia di eccedenze di pubblico, disordini per la strada”.

“Quel periodo l’ho vissuto un po’ come un periodo in cui c’erano amici che cominciavano a produrre musica, c’erano amici che cominciavano a organizzare concerti con gli amici che producevano musica. Cominci a stringere dei legami, cominci a ricevere anche delle specie di collaborazioni, alleanze. Forse anche per quello che non trovavamo il nostro spazio all’interno dei bar, perché non puoi sentirti che stai costruendo quello che chiamavo scena in un bar dove non centri, dove non lavori. Quindi un po’ questa voglia di avere il nostro locale o localino, anche soltanto per ritrovarci, per fare amicizie, chiacchierare. Abbiamo trovato questo scantinato che era sotto una paninoteca. La voglia era quella di riuscire ad avere un luogo anche dove creare un po’ un senso intorno a quello che stai facendo. È durato veramente molto poco. Abbiamo incominciato un po’ i lavori di ristrutturazione di questo scantinato: abbiamo demolito muri, abbiamo costruito muri, abbiamo insonorizzato delle sale, abbiamo fatto appunto 2 o 3 giornate dedicate alla musica. Poi c’erano persone amiche, amici che dipingevano, che si sono messe a produrre ?, che stampavano. Quindi si è cominciato a organizzare anche presentazioni di queste cose. Diciamo che è stato un po’ una prima esperienza, gestita in maniera un po’ naif. Ci siamo accorti in fretta che non puoi fare un locale abbattendo una parete, ingrandendo una stanza e organizzando dei concerti e basta. Nel senso, c’erano diversi step che stavamo completamente ignorando, tra cui la presenza di un proprietario di quello stabile e il fatto che attiri parecchio l’attenzione a organizzare eventi pubblici in uno scantinato in centro Lugano”.

L’inizio e la fine della collaborazione con il Molino

“Volevamo tutto, volevamo fare tutto, volevamo fare sempre più un grande, volevamo trovarci lì, fare le mostre d’arte, fare le feste, fare i mini-festival, raccogliere i fondi per aprire il locale, fare il crowdfunding per finanziarci. Sono tutte cose che un po’ nell’euforia del momento, ti si metti a fare”. “Questo luogo, che si chiamava Lì (?) in questo scantinato, avevamo già preso proprio veramente anche degli impegni con dei gruppi. Quindi, sì, ci trovavamo un po’ con un mezzo palinsesto di attività che di punto in bianco non avevano un posto dove poterle svolgere. Quindi boh, visto che tutti noi all’interno dell’associazione abbiamo sempre un po’ fruito del centro sociale il Molino, abbiamo deciso di presentarci in Assemblea con questo programma semestrale e vedere se, appunto, l’Assemblea del Molino poteva essere interessata ad accogliere questo tipo di iniziative. Sono state accolte subito e molto bene, senza particolari dibattiti, e quella è stato uno dei punti che più mi fa vedere la bellezza di poter vivere uno spazio autogestito, perché ti permette di entrare a contatto con una realtà dove, se le questioni sono chiare e hai voglia di costruire e portare un discorso, viene facilmente accolto. ‘Ok, questo è lo spazio, questa è la sala, questo è l’impianto audio’, in poche parole diventa un ‘organizza il tuo gruppo’, hai tutta questa infrastruttura a tua disposizione e gestisci tu le tue serate”.

“Dopo, un certo numero di attività proposte, una delle maggiori questioni di dibattito tra la nostra associazione e l’Assemblea del Molino erano quelle che appunto non veniva inserito un discorso politico all’interno delle attività che, in quanto associazione stavamo promuovendo. Per noi, al tempo punto, non ci era molto chiara questa definizione dell’essere politico. Cioè, c’è per noi è sempre un po’ stato il chiamare un certo tipo di gruppi, il presentare un certo tipo di attività all’interno di un certo tipo di spazio; per noi era già in qualche modo una sorta di atto politico. Più che una critica diretta era un ricorrente punto che veniva analizzato all’Assemblea”.

“Nel corso dell’estate, noi uscivamo sempre con un carrello della spesa pieno di birre al freddo, specialmente durante il periodo del Buskers, e vendevamo queste birre. C’era un cartello attaccato al carrello con su scritto ‘Beer for tits’. Noi al tempo avevamo 19-20 anni, eravamo molto giovani, avevamo l’ormone facile. In uno di questi giri con il carrello, incontrando delle persone attive nell’Assemblea del Molino, ci è stato fatto notare una maniera giustamente, oggi dico giustamente, accesa, che non eravamo assolutamente consapevoli del messaggio che stavamo lanciando, portando un’iniziativa di quel tipo. Chiaramente, quando nascono delle piccole fratture o delle piccole incomprensioni, poi dopo creano anche delle destabilizzazioni anche più grandi. E quindi, diciamo, non è che c’è stato proprio un momento vero e proprio che ha dato il la alla fine dell’esperienza, ma è stata tutta una serie di incomprensioni e di questioni che a un certo punto hanno portato la nostra associazione a prendere un po’ di distanza da quello che era l’esperienza diretta con il Molino”.

Il Casotto

Entra nel racconto a questo punto un altro spazio, il Casotto, un appartamento sopra un negozio di pompe funebri e accanto la discoteca alternativa Living Room, in cui per quasi sei anni hanno trovato posto attività culturali di vario tipo.

“C’è sempre stata della gente che viveva questo appartamento, ma specialmente durante il weekend si trasformava in quella che era una sala concerti, c’era un baretto e si era costruito un bancone fuori dalla cucina. In quel preciso momento il Casotto non era abitato, non c’era nessuno che occupava le stanze e quindi anche lì ci siamo trovati a chiedere la possibilità all’associazione Area (?), che gestiva il Casotto, se potevamo entrare come inquilini. Quindi, appunto, ci siamo trovati da una parte come inquilini a prendere delle camere, dall’altra anche a incominciare a portare le nostre attività. Ma, io penso che il Casotto sia stato in piedi perché ha sempre avuto un’impronta molto segreta, molto riservata, non ha mai avuto pagine social, non ha mai fatto nemmeno fisicamente dei flyers, si veniva a conoscenza delle attività tramite una piccola newsletter o, se no, veri e propri messaggi telefonici. Io personalmente penso che il fatto che abbia potuto resistere nel tempo sia dovuto tanto anche a questa segretezza nel presentare le attività”.

“Il Casotto era uno dei posti che faceva parte della mia vita. Era un attimo finire dietro il bancone del bar una sera o davanti alla cassa un’altra. Secondo me Casotto aveva anche la questione che non aveva l’ambizione di essere un centro culturale, un club, non aveva nessuna ambizione pubblica di esistere. Era semplicemente un posto in cui una serie di concerti ed eventi, a volte al limite tra il privato e il pubblico, succedevano”. “Un’altra questione che ha permesso al Casotto di esistere così tanto nel tempo e che, urbanisticamente parlando, era già un po’ se vuoi una zona dove il vicinato era già sensibile un po’ nei confronti della musica, degli eventi musicali, della gente che c’è in giro, non si è mai veramente sentito un vicino che si è lamentato delle attività legate al Casotto. C’erano tre stanze, una diventava sala concerti, l’altra diventava fumoir e una veranda vetrata. Quindi d’estate un sacco di caldo, d’inverno un sacco di freddo. E a livello abitativo si poteva immaginare magari la presenza di tre persone fisse. Noi, ecco, eravamo negli ultimi mesi che stazionavamo lì, eravamo arrivati a essere 5-6 persone, quindi la voglia di immaginarsi una nuova esperienza e trovare un nuovo luogo. Quindi siamo sempre stati un po’ all’occhio per vedere se c’erano superfici, spazi che si poteva riuscire ad accedere”.

Gli inizi del Morel

Lo spazio individuato sarà il Morel, un gigantesco e labirintico garage della Fiat, abbandonato da diversi anni, uno degli ultimi stabili industriali in disuso a Lugano. Grazie al fatto che i vecchi proprietari del sedime avevano un legame familiare con alcuni membri del collettivo, si riesce a mettere in piedi un accordo di comodato d’uso che si sarebbe interrotto al momento dell’inizio dei lavori per l’edificazione di tre palazzi di lusso previsti nell’area.

“La proprietà ha accolto questa proposta e quindi nel 2016 ci siamo insediati negli spazi di Morel”.

“Io mi ricordo che ero appena tornato dall’università, tu mi hai portato in un bar e mi ha detto ‘guarda, abbiamo la possibilità di gestire spazio per un periodo breve – dove essere inizialmente sei mesi, sette mesi, fino a che non viene abbattuto e non ci sono dei lavori – facciamoci un centro culturale’. Un po’ con quell’euforia dell’inizio, abbiamo messo in piedi un po’ un gruppo di persone, abbiamo fatto un giro negli spazi, ci siamo immaginati così su due piedi che cosa potevano diventare. Abbiamo comprato la vernice, abbiamo ridipinto le pareti, abbiamo tirato fuori una sala espositiva, una piccola sala concerti con un barettino e, in tre mesi di lavoro, abbiamo improvvisato il primo step di quello che pensavamo sarebbe stato un progetto super temporaneo. Ci siamo trasferiti e abbiamo cominciato a programmare i primi eventi”.

“Per la verità noi, sapendo della possibilità di gestire questi spazi, abbiamo contattato la città di Lugano per presentare il progetto. Abbiamo fatto un sopralluogo, abbiamo indicato gli spazi che avremmo voluto risanare. Alla fine di questo brevissimo incontro ci hanno tagliato le gambe subito, il rappresentante d’ufficio che era venuto a visionare gli stabili ha proprio detto ‘guardate che per fare quello che mi state spiegando sono procedure lunghissime, scordatevi di fare le cose legalmente’. Ci hanno quasi come indirizzato nella direzione, appunto Casotto. ‘Fatelo loro segretamente, non tirate fuori chissà quale problema e magari riuscite a tirare in là appunto i mesi o l’anno che prevedete di gestire lo spazio’”.

“Allora quello che avevamo pensato di fare era così: abbiamo detto ‘abbiamo un’associazione, tesseriamo le persone che entrano, il posto è privato ce l’abbiamo in gestione…”, il bar era una buvette con dei prezzi, si può dire simbolici, e l’introito del bar alla fine copriva i costi dell’organizzazione degli eventi. Noi eravamo tutti volontari e volontarie, quindi questo era il minimo di attrezzatura legale di cui ci eravamo dotati. Ormai erano già più o meno cinque anni che organizziamo le cose e quindi ci eravamo detti ‘questa iniziativa deve incominciare a entrare nell’ottica che sia una cosa pubblica, che venga presa come possibile’. Seppur scoraggiati da questo primo incontro con le istituzioni, noi abbiamo detto ‘noi lo facciamo comunque pubblico, cioè non ci limiteremo a mantenerlo segreto’. Consapevoli che saremmo andati probabilmente incontro a delle problematiche con le istituzioni e le relative autorità, ecco”.

L’inaugurazione dello spazio Morel e i problemi burocratici

Nonostante la precarietà, lo spazio viene aperto nel febbraio 2017 e all’inaugurazione, a sorpresa, si presenta anche il sindaco di Lugano Marco Borradori.

“Borradori non è stato invitato, si è presentato nella totale insaputa di tutti e tutte noi. Non c’è stato un contatto vero di dibattito e dialogo attorno quello che lui stava vedendo. C’è stato un approccio molto superficiale, molto da ambiente vernissage. Sì, non c’è stato veramente un dialogo”.

“All’inizio pensavamo di restarci per sei mesi. Avevamo lavorato a una programmazione serratissima. Già da subito dopo l’apertura avevamo in programma quasi un’esposizione ogni due settimane. C’erano concerti settimanali, stavano cominciando ad allestire degli atelier di lavoro. In quegli anni, in un certo senso, ci siamo ritrovati ad avere la sensazione di essere tutti convogliati in pochi posti, improvvisamente c’era il Molino attivo, Morel attivo, Sonnenstube con la sua programmazione di mostre attiva che poi si è spostata all’interno di Morel”.

“Avevo l’impressione che stessero succedendo tantissime cose, finalmente, e che non fossero nate appena lì, ma che fossero già esistenti. Semplicemente si era trovato un po’ il quadro, anche di dividerli in maniera positiva”.

“Il nostro secondo incontro con le istituzioni è stato con il Dipartimento di polizia che ci ha richiamato per un verbale. Voleva sapere da noi chi eravamo, che cosa stanno facendo, perché lo stavano facendo, quali erano le relazioni con la proprietà di casa. E intanto i lavori di demolizione da parte della proprietà c’erano stati comunicati che sarebbero stati posticipati, quindi a noi dava già una possibilità più lunga nel tempo di presentare le attività. Abbiamo inoltrato una richiesta di incontro con il municipio per poter parlare di questa iniziativa. Il Municipio non ci ha contattato. È arrivato l’autunno, a settembre abbiamo ricominciato le attività senza aver ricevuto una risposta da parte del municipio. Ricominciando le attività, allora il municipio ci risponde fissando un incontro verso dicembre.

“Noi ci aspettiamo dallo spazio Morel il rispetto di determinate indicazioni. Noi abbiamo fiducia in loro e non vorremmo che la fiducia venga mal riposta. Dal canto nostro, però, se le cose funzionano siamo disponibili a ribadire in ogni occasione il valore delle loro attività” (Marco Borradori).

“Noi ci eravamo detti chiaramente super disponibili a mettere in ordine tutto quello che fosse relativo alla sicurezza. Quello che potevamo fare sia a livello di forze nostro sia a livello economico, comunque, perché certi interventi richiedevano un grosso impegno, l’abbiamo fatto. Le uscite di emergenza, infatti, sono state piazzate, le luci, tutto quanto. Il controllo del sistema elettrico l’abbiamo fatto. Quindi diciamo che all’inizio la strada con il municipio era ‘ok, siamo in una situazione dove ormai questo posto esiste da un anno e mezzo, si sta delineando come un centro culturale esistente. Non si può negare che ha una programmazione e tutto. Cosa facciamo per permetterci di arrivare alla fine di questa esperienza?’. Si era un po’ entrati in una discussione del minimo richiesto, anche un po’ in funzione della temporaneità del progetto. Il problema secondo me è stato che era come se non bastasse mai, come se arrivasse sempre un carico nuovo di problematiche aggiuntive: ‘Ah no, quello che avete fatto è bene che l’avete fatto, però non è abbastanza. Adesso c’è questo problema qua’. E quindi questa cosa ha incominciato un po’ a creare anche un certo senso di sfiducia”. “Come collettivo avevamo cominciato subito a uscire pubblicamente con dei comunicati, dal momento che avevamo avuto i primi problemi con la polizia, dove cercavamo di portare l’attenzione sulla necessità reale che aveva in quel momento Lugano di esistenza di spazi per le associazioni, sale prove. l’officina…”. “Volevamo fare in modo che Lugano sentisse che un posto così potesse essere necessario e possibile. Ci siamo trovati però a incontrarci, a parlare praticamente solo di norme edilizie. Ci siamo interfacciati molto di più con l’ufficio tecnico che con il capo dicastero cultura. Norme, pulci alle norme, cosa si poteva fare, cosa non si poteva fare, è giusto che ci siano i bagni pubblici. Come facciamo ad avere i bagni? Ci devono finanziare loro la porta antincendio oppure no? Tante cose sembravano dei vicoli ciechi per un po’ la temporaneità del progetto, un po’ il fatto che non avevamo i soldi per affrontare certe cose. A un certo punto è diventato ‘ok, la legge parla chiaro, dice così, queste sono le normative, queste sono le regolamentazioni, questi sono gli step che bisogna fare’. Quindi si parlava di cambio di destinazione, si parlava di domande di costruzione, si parlava di tutta una serie di cose. Quindi rientrare all’interno di tutto un iter burocratico e amministrativo che è lo stesso che poi viene applicato a un qualsiasi esercizio pubblico, di natura commerciale, come può essere appunto un locale notturno, un bar, un ristorante”. “Noi poi abbiamo redatto un rapporto con degli architetti, abbiamo inoltrato la domanda di cambio di destinazione. Cioè, abbiamo tentato le varie strade che man mano ci venivano proposte come ‘proviamo questa cosa, vediamo se si riesce ad andare un pochettino più in là nel tempo”. “Sì, a volte magari abbiamo diminuito un po’ i concerti, però non abbiamo mai deciso di interrompere le attività”.

“Tutte le volte che la polizia arrivava era appunto un rapporto di contravvenzione che diventava decreto di multa. E sono multe che appunto sono arrivate tra i 20 e i 30 mila franchi. Quindi sono anche multe di una sostanza abbastanza importante, soprattutto per un’associazione come la nostra. Non rispondevo io in quanto presidente dell’associazione, rispondevo io in quanto persona fisica. Fine 2018 inizio 2019, quindi verso la fine proprio della chiusura di Morel, siamo arrivati a un punto dove ci si è messa davanti la questione ‘se voi volete continuare a portare avanti attività, dovete fare un cambio di destinazione della struttura’, al quale abbiamo ricevuto un’opposizione e quindi ci siamo scontrati contro questo vicolo cieco. Abbiamo fatto un altro incontro con la municipalità, che sarebbe stato l’ultimo. Durante questo incontro si è presentato anche un funzionario degli uffici cantonali. Penso che è l’incontro più breve della storia ha detto ‘il dossier è nelle mani degli uffici cantonali, noi non possiamo assolutamente tollerare questo tipo di situazione. Quindi o fate una domanda di ricostruzione, con tutto l’iter burocratico, i tempi annessi e i costi annessi di quello che vuol dire, o se no, qui da oggi non si può più fare nulla’”.

“Poi diciamo che le tempistiche dello spazio non erano promettenti, i rischi legali e personali erano diventati quasi insostenibili per alcuni di noi e quindi, gradualmente, la programmazione pubblica si è interrotta. Abbiamo continuato con tutto quello che era sale prove, le officine, la zona di stampa. Io ho avuto l’impressione che comunque, se la questione voleva essere risolta, sarebbe stata risolta in maniera diversa. Ma tutto il discorso sarebbe stato affrontato in maniera completamente diversa. Un discorso più reale su quello che stava accadendo a livello culturale, quello che erano i contenuti e quello che era la nostra proposta. Nel senso, eravamo paradossalmente illegali, enormi perché lo spazio era pazzesco. Immischiati in tutto quello che era anche la scena artistica, culturale, istituzionale. Sono passati da lì anche collaborazioni con l’incontro svizzero del teatro. Ci sono state delle collaborazioni con il Masi. In una situazione grigia, incomprensibile”.

Nonostante le autorità non facessero attivamente nulla per favorire le attività e continuassero nel loro atteggiamento ostile, lo spazio non venne mai formalmente chiuso. Forse perché serviva anche ad offrire un alibi al municipio relativamente alla questione culturale e giovanile. “Una delle cose che era emersa, dal momento che noi avevamo cercato di mettere in regola lo spazio, era che improvvisamente lo spazio Morel non era più un luogo dove una associazione culturale, una serie di professionisti, lavoratori e lavoratrici della cultura organizzava degli eventi, ma era diventata un’autogestione buona che lavorava per trovare degli accordi, per trovare un dialogo, contrapposta a invece a un luogo che proponeva un’attività diversa, con dei contenuti politici diversi e che aveva un atteggiamento con le istituzioni molto più radicale. Noi abbiamo sempre sostenuto che i due progetti potevano e dovevano assolutamente coesistere all’interno della città. Si basavano su dei presupposti di partenza completamente diversi e quindi abbiamo anche rivendicato in un certo senso che il nostro essere all’interno del municipio a discutere non poteva essere paragonato con quello che l’esperienza del Molino stava affrontando. Io ho letto un po’ questo messaggio che la città di Lugano ha voluto mandare, dove se sono i concerti, sono le mostre, è il teatro, è roba bella e culturale, è importante e lo vogliamo. Se è un discorso politico, un centro sociale, allora non va bene. Paradossalmente, Lugano ha tratto anche politicamente beneficio da non Morel”.

Autogestione buona e autogestione cattiva, ma Morel è autogestione?

Nello scorso episodio di Macerie abbiamo addirittura raccontato il fallito tentativo di Michele Bertini di affidare al collettivo del Morelli, tramite un accordo sottobanco, la gestione dell’attività culturale del Macello all’interno del progetto Matrix. Un tentativo del municipio di giustificare lo sgombero dell’autogestione antagonista senza apparire come contrario di principio all’autogestione definita culturale.

“Non si tratta più di autogestione, di proporre cultura alternativa o momenti diversi. Qui adesso si tratta di antagonismo puro nei confronti dell’autorità costituita” (Michele Bertini?).

Autogestione buona, autogestione cattiva. Ma Morel si definisce un progetto autogestito? “Noi abbiamo descritto sempre un po’ Morel in quanto un’iniziativa indipendente di un’associazione indipendente che promuove arte contemporanea e le sue molteplici forme, che ha una gestione appunto completamente slegata dalle strutture o i processi istituzionali. Secondo noi, c’è comunque una grandissima differenza. Cioè, comunque il Molino ha delle pratiche, cioè ha un’Assemblea libertaria, chiunque può presenziare a questa Assemblea, in questa Assemblea si prendono le decisioni che poi vengono applicate all’interno del centro sociale o all’interno delle iniziative. Comunque non avevamo delle assemblee pubbliche aperte, non è che chiunque poteva partecipare ai processi decisionali di quello che poi sarebbe avvenuto all’interno di Morel. Comunque, da parte nostra c’era un rapporto, una sorta di tra virgolette direzione artistica o curatela di quello che è un programma. Noi non l’abbiamo mai definito autogestione il progetto di Morel”. “Sicuramente non era un centro sociale, rispondeva a problematiche diverse, aveva un modo di porsi, di programmare, di funzionare completamente diverso. E per questo che per noi non ha mai avuto senso il paragone sulla questione dell’autogestione. Cioè, il discorso era ‘c’è un centro sociale, noi abbiamo costruito un altro tipo di situazione che possono completamente coesistere, anzi, dovrebbero e devono coesistere senza in nessun modo entrare in conflitto o escludersi uno all’altro’. Sembra che la città identifichi come autogestione tutto quello che non organizzano loro”. “È come se hai la possibilità di parlare con la politica soltanto quando crei un problema. Quando ti metti nella posizione di dire ‘ok, le cose le facciamo così, sappiamo che non possiamo farle così, ma le facciamo lo stesso’. Il dialogo deve avvenire quando c’è un riconoscimento reale di quello e di quello che si sta facendo. Se non c’è quel riconoscimento, che tipo di dialogo posso avere?”. “È l’ennesima dimostrazione anche dell’impreparazione culturale ad affrontare questo tipo di cose e del bisogno, prettamente politico, di creare degli opposti, di scegliere che cosa è bene e che cosa è male, di capire che cosa può essere sostenuto e che cosa invece va fatto chiudere pubblicamente e cosa va fatto chiudere coi sotterfugi”.

Episodio 12: Lo sgombero

Introduzione

“Erano mesi che facevamo 1000 ipotesi, 1000 scenari, discussioni, eccetera. Ci si era quasi messi il cuore in pace a dire ‘ma no, ma non sgomberano’”. “Alcuni giorni dicevo ‘ma no, dai, solamente sotto elezioni, non lo faranno’. Però dopo parlavo con alcune persone, anche fuori dallo spazio, e mi dicevano ‘guarda che il tempo stringe, arrivano’”. “Comunque si sapeva che sarebbe stato di lì a qualche mese o qualche settimana”. “Se ne parlava, però mai pensando che potesse succedere veramente da un giorno all’altro, così di colpo, come poi è quello che è successo”. “Magari è paradossale, perché è vero che ne discutevamo da tanto, c’avevano dato la disdetta, però come un fulmine a ciel sereno”.

Questo è il 12º episodio di Macerie. Si intitola ‘Lo sgombero’.

Il corteo e la presa del Vanoni

“Dopo comunque settimane di preparazione allo sgombero – quindi facevamo i turni di notte, le colazioni anti-sgombero – abbiamo detto facciamo una manifestazione, ma forse usciamo anche da questo angolo e proviamo occupare. Anche un po’ per dimostrare che gli spazi, se vogliamo, ce li prendiamo”.

Viene lanciata una manifestazione per sabato 29 maggio contro lo sgombero e a difesa degli spazi liberati autogestiti. Intanto, dietro le quinte si sta organizzando per la fine del corteo un’occupazione temporanea dello stabile abbandonato dell’istituto Vanoni, in passato sede di un centro educativo per minorenni.

“La manifestazione, preannunciata dai Molinari per sabato pomeriggio alle tre, non è stata autorizzata. Infatti, come i ritrovi precedenti, nessuno ha chiesto il permesso alla città. Un atteggiamento che mette sull’attenti l’esecutivo luganese, anche perché il fatto di aver dato appuntamento in piazza Riforma può essere visto come una provocazione. Come in altre occasioni, municipio e polizia non escludono che alla manifestazione possano partecipare anche altre realtà vicino all’autogestione, provenienti dall’Italia ed oltre San Gottardo. Se questo scenario dovesse realizzarsi, la polizia, rinforzata dalla presenza di agenti romandi, entrerà in azione. In ogni caso, il municipio luganese ribadisce il desiderio di trovare un equilibrio per un possibile dialogo futuro, senza provocazioni, ma garantendo la massima sicurezza e soprattutto non tollerando in alcun modo disordini e violenza” (Reportage).

“Erano praticamente tre mesi che si viveva sotto la minaccia di sgombero. Con tutto quello che poteva comportare, c’era sicuramente tanta stanchezza”.

I mesi precedenti, ne abbiamo parlato nell’episodio 10 di Macerie, sono stati carichi di tensione. Le autorità non hanno perso occasione per raccontare l’autogestione a Lugano come problematica e potenzialmente violenta.

Il progetto edilizio Matrix per innovare l’area dell’ex-Macello era ormai assodato. E si era già provveduto a disdire la convenzione che regolava i rapporti con l’associazione Alba. La proposta del Molino per quel sabato non era certo accomodante. Anzi, alzava la posta in gioco.

“Penso che in nessun momento c’è stato rimpianto di potenzialmente perdere quello spazio. Perché vabbè… perché si vive al momento e non si voleva rinunciare a portare le nostre rivendicazioni”. “Il corteo era partito da piazza Riforma che ora rinominata piazza Rivolta”. “Avevamo un furgoncino con sopra le casse, per fare anche un po’ di musica, per far partire i vari interventi. Mi ricordo che comunque era un corteo abbastanza colorato, tanta gente con tanti cartelli”. “È stata proprio una bella manifestazione. Era anche un momento… proprio di gioia, di festa. Io l’ho vissuta proprio così, questa manifestazione. C’era un bel clima ed è andato tutto molto tranquillamente proprio durante tutta la manifestazione”.

“Era un corteo molto eterogeneo, cioè da chi arrivava col palloncino a chi invece ha passato il corteo più coperto per una questione anche di sicurezza propria, pronto anche eventualmente a mettersi in gioco nel momento in cui avessero bloccato il corteo. Da un lato metteva un po’ di timore, no?… A certe persone, però poi nel momento in cui riuscivi magari anche a spiegare un po’ il perché, veniva comunque anche un po’ capito”. “C’era stato tutto un momento, davanti all’autosilo Balestra… era calato uno striscione con del fumo colorato attorno ed era uno striscione contro Gobbi”.

“E niente, il corteo poi continua. Arriviamo davanti al Molino, si leggono altri interventi. Sono stati attaccati due striscioni, uno perché era il compleanno di una mamma di alcuni compagni e quindi avevano scritto ‘auguri mamma’ sulla casetta e un’altra per un compagno che era morto qualche giorno prima. E questo lo dico nell’ottica… che alla fine di tutta quella giornata quei due striscioni non c’erano più”.

“Il corteo poi ha proseguito verso la piazza Molino Nuovo e poi da lì è saltato un po’ fuori quella sorpresa, perché era stata pensata una TAZ a fine corteo”. “che significa zone temporaneamente autonome. E sono proprio questi spazi abbandonati che vengono fatti rivivere per una notte, per un momento, per dimostrare, per far vedere proprio che questi luoghi hanno una storia, hanno un vissuto e gli si da di nuovo un valore, no?”. “Si è iniziato a distribuire dei bigliettini all’interno del corteo dicendo ‘a fine corteo non andatevene perché ci sarà qualcosa’. Si è arrivati al Vanoni, appunto, e c’è stato questo primo momento di occupazione temporanea. Le persone sono entrate nello stabile. Sono stati attaccati vari striscioni che avevano fatto parte di tutto il corteo”. “Sono state delle belle emozioni. Le finestre si sono aperte, si sono appesi gli striscioni, c’era la musica…”. “L’occupazione, invece, non è stata così abbracciata da tutte le persone. Non tanto che le persone non condividevano, ma proprio non si conosce come pratica, l’occupare, cosa vuol dire, cosa fai, dentro, fuori, chi sta fuori”. “Quando si è arrivati in piazza Molino Nuovo diversi poi sono andati via. Quelli che poi hanno continuato anche la TAZ eravamo molti meno, mi sembra”. “È stata tosta, sì, ricordo molto bene momenti anche emotivi fortemente contrastanti. Nel senso che il corteo, fin dopo all’occupazione, fino almeno mezz’ora dopo la presa del Vanoni, è stato un corteo perfettamente riuscito, partecipato. E anche quando ci si è presi il Vanoni è stato molto bello. Le prime persone che sono entrate hanno aperto le finestre e poi da lì ha cominciato la situazione un po’ a precipitare”.

“Una volta arrivati all’istituto Vanoni, comunque, si è fatta un’Assemblea per decidere cosa fare. Si erano già organizzati degli interventi, delle discussioni, non si voleva fare una mega festa. Si voleva fare qualcosa di più politico e di discussione su diversi temi. Un tema era anche il centro chiuso per minori. Si erano preparati i panini per la cena”. E invece? “Eh… invece no?”.

Per capire bene la situazione bisogna ricordare che l’ex-Macello, sede del Molino, e l’ex-Istituto Vanoni, in cui sta avvenendo l’occupazione temporanea, distano meno di un chilometro. Quel pomeriggio la polizia ha stazionato al Campo Marzio, una zona di capannoni congressuali, non lontana da entrambi i luoghi.

“Perché arrivavano queste informazioni, no? Della polizia che si stava muovendo in zona Campo Marzio. Che cosa vogliono fare? Dove vogliono andare? È stato tutto, come si diceva prima, anche molto veloce”. “È un po’ quella situazione dove tutti iniziano a dire tutto. Quindi ci siamo detti ‘ok, mettiamoci un attimo in cerchio, cerchiamo di capire cosa sta succedendo’. Probabilmente, sedersi in cerchio, ascoltarsi, discutere un attimo tramite una cosa un po’ più assembleare, penso che è quello che quella sera ci ha un po’ fregati”.

“Si è provato a fare un’Assemblea per capire cosa fare, se rimaner lì o andare al Molino, perché poi lì si è capito che c’era la possibilità che andassero anche al Molino. Forse in quell’istante un’Assemblea non era il massimo, perché si perde molto tempo e non c’era tanto tempo per pensare. Infatti non si è mai conclusa”. “C’erano tante persone diverse che non avevano partecipato alla costruzione della giornata. Quindi giustamente dicono la propria, però il tempo scorreva. Cioè, la clessidra è stata veramente troppo veloce e, quando è finito il tempo, era troppo tardi.

“A proposito del Vanoni, effettivamente questo aspetto secondo me va un po’ sottolineato, perché quando si apre il discorso, appunto, relativo alla presunta chiusura…”. “Questo è proprio un momento che… magari inopportuno, magari col senno di poi da evitare, ma che dimostra invece la grande capacità di apertura e di condividere quello che si fa in una situazione in un momento di piazza”.

La demolizione del Macello

Quel giorno a Lugano c’era davvero tanta polizia. Sono stati chiamati rinforzi dalla Svizzera francese. C’era addirittura un drone che sorvolava in continuazione il corteo. Alle 19:30 circa dal Campo Marzio partono due plotoni di polizia distinti. Uno si dirige verso il centro sociale e l’altro che, a causa della distanza necessita di qualche minuto in più per giungere sul posto, è diretto al Vanoni.

“Arriva una chiamata che dice che gli sbirri stanno circondando il Molino. Io mi ricordo proprio che non ho più guardato niente di quello che c’era attorno… abbiamo iniziato a correre verso il Molino. Eh, ci siamo mangiati le mani, sì. Perdi proprio quel 2 minuti che l’hai sentita e percepita, sai che lo dovevi fare. Però per una dinamica più collettiva ti viene di fermarti. E invece quel sesto senso andava…”. “Un cordone di polizia ha chiuso, due accessi della strada all’istituto Vanoni, quindi chi era dentro, era dentro e chi era fuori, era fuori. E al contempo, sono entrati al Macello”.

“La lucidità è andata un po’ a farsi benedire lì, nel senso, il gesto da parte della polizia è stato forte ma anche in parte inaspettato. La combo accerchiamento Vanoni e accerchiamento Molino, io personalmente non me l’aspettavo e per certi versi fino a un certo punto nemmeno ci volevo credere”. “E poi effettivamente l’intervento è stato di una certa violenza, nel senso che comunque anche l’accerchiamento al Vanoni… veramente brutto”. “È arrivato subito anche l’imbrunire, era scuro, quindi…”. “Ci abbiamo messo un attimo prima di riuscire ad allontanarsi dal Vanoni. Se prima avevamo, quando l’avevamo pensata, saremmo riusciti a farlo in un attimo, così… Li abbiamo dovuto scavalcare un po’ di robe. C’era il drone che ci seguiva proprio…”. “Siamo arrivati, praticamente c’era il Molino circondato da poliziotti in antisommossa. Mi ricordo che noi abbiamo provato a avvicinarci dalla parte dietro e subito sono arrivati, penso in sette otto, a gridarci di allontanarsi. E piano piano ha iniziato, proprio tutta la polizia, ha iniziato ad entrare dentro al Molino, e noi fuori, guardando loro che entravano, che spostavano cose, che arrivavano sul balcone della casetta”.

All’interno del Macello, era da poco arrivato un gruppo di persone che si era staccato dal presidio al Vanoni, per cercare un po’ di tranquillità. Soltanto una decina di persone, alcuni bambini e altri minorenni e un paio di cani. Sono da poco passate le 20.

“Ero con mia figlia e altri compagni con bambini e avevamo voglia di prenderci un respiro prima di tornare a casa. E quindi abbiamo proprio detto ‘ma sì, andiamo al Molino’. Mentre si camminava verso il Molino mi è venuto un barlume e ho detto ‘e se ci sgomberassero è proprio in quel momento?’. E poi così è accaduto. È successo tutto molto in fretta. Ho cominciato a vedere qualche poliziotto in antisommossa e ho cominciato a contarli. E a un certo punto mi ricordo di aver perso il conto, perché erano troppi e credo che fossero sicuramente più di 100. E a un certo momento ci siamo trovati tutti accerchiati, senza via di scampo, senza possibilità di fuga, con dei bambini dentro. E quindi anche la decisione di ‘che cosa facciamo?’ e che ci siamo guardati in faccia ed eravamo pochissimi. Non è c’erano tante possibilità. Abbiamo chiesto di avere qualche minuto, abbiamo detto ‘dovete darci del tempo, dovete lasciarci 10 minuti per capire cosa dobbiamo fare’. A un certo punto questi 10 minuti sono diventati una manciata di secondi e ci hanno richiamato con il megafono e alla fine si voleva opporre resistenza passiva, ma sembrava anche ridicolo solo a dirlo. Quando poi col megafono ci hanno intimato lo sgombero, io mi ricordo che non mi potevo capacitare che potevamo essere solo noi. A un certo punto, abbiamo detto ‘prendiamo qualcosa’. Ci siamo ricordati del materiale zapatista, che poi si riduceva in poche magliette, il caffè, piuttosto che nei braccialetti. Qualcuno ha pensato di portare via un vaso di fiori. Eh, uscire è stata una tempesta. È stata una tempesta perché era come perdere da qualche parte, non essere stato in grado di difendere neanche lo spazio. Un senso di colpa atroce che ho ancora adesso. Cioè, noi eravamo dieci, loro più di 100. La cosa più tremenda è di non aver potuto recuperare nulla, di non aver più potuto recuperare nulla. Come se non ti fanno tornare a casa tua a riprendere le due cose. E ti cova dentro quella rabbia, quella rabbia io l’ho sentita nei giorni, che qualcosa mi era stato tolto, che qualcosa mi era stato levato”.

Davanti al Molino, poco dopo che l’hanno sgomberato, hanno iniziato ad arrivare dei gruppetti di fasci. Sono venuti con un’aria molto, molto provocatoria, quindi ci si è ritrovati, anche nel momento comunque di rabbia e di 1000 emozioni che ci attraversano, a doversi anche, diciamo, difendere da questi attacchi fascisti”.

Buona parte dei militanti sono ancora rinchiusi nell’accerchiamento del Vanoni. Nei dintorni, intanto, si sono raggruppati i sostenitori curiosi.

“E, a un certo punto, mia figlia mi ha chiamato e mi ha detto ‘Mamma, siamo all’ex-Vanoni, faremo una festa qui. Fino a che ora posso rimanere?’. In serata mi arrivano dei messaggi da parte degli altri ragazzi del Molino che dicono che stanno arrivando dieci camionette della polizia. E lì, io mi sono preoccupata, nel senso che ho iniziato… La prima cosa che ho fatto, ho telefonato a Sofia e le ho chiesto ‘tu cosa vuoi fare?’ e lei mi ha detto ‘io voglio rimanere qui’. Io faccio ‘ok, va bene, però, visto che tu decide di rimanere lì, scendo anch’io a Lugano’. Però a un certo punto quello che per me è stato forte è quando sentivo che la polizia non permetteva più ai ragazzi di uscire e che sarebbe iniziato a diventare qualcosa di pericoloso. E allora a me questa cosa preoccupava. Io, insomma, non ho cuore di pensare a mia figlia che viene menata da un poliziotto. Quindi ho chiamato Sofia e le ho detto ‘adesso esci, basta. La situazione sta diventando pesante’. Mentre stava andando a prendere i suoi documenti è arrivato Borradori e, non so, c’è stato un momento di tafferuglio. In quel tafferuglio io ho visto come se mia figlia andasse sotto a tutto un tot di persone, poliziotti, ragazzi, eccetera. Io mi sono spaventata e urlato ‘Sofia!’. E ho spinto alcuni poliziotti, i quali mi hanno preso mi hanno fermato. Hanno detto ‘guardi che lei non può passare’. Hanno continuato a dirmi che ero una madre che non dava nessun buon esempio. Fino a quando uno di loro mi ha dato anche una testata, mi ha dato una testata”. “Vergognati, pezzo di merda!” (voce registrata di un giovane al Vanoni).

Quando sono state chiamate le ruspe?

“Siamo qui davanti all’ex-Istituto Vanoni. La situazione fino a poco fa era piuttosto tranquilla, ora si è un po’ agitata con l’arrivo del sindaco Marco Borradori”. “Il tutto è riconducibile purtroppo alla manifestazione che è derapata, una parte dei manifestanti hanno deciso di occupare uno stabile. A quel punto lì i proprietari giustamente si sono lamentati, hanno denunciato il fatto e la polizia è dovuta intervenire” (Marco Borradori per la RSI).

Fra i giornalisti presenti fuori dal Vanoni c’è anche Anna Bernasconi, che realizzerà un’inchiesta per la televisione svizzera per cercare di far luce sull’accaduto.

“Tra l’altro mi ricordo perché ero presente con tanti altri giornalisti. Eravamo in tantissimi quella sera lì e mi ricordo che, chiaramente, arriva il sindaco in una situazione calda di manifestazione. Quindi ha accentrato ancora di più le persone su di sé. C’è questa intervista in collegamento, in cui appunto si diceva molto deluso da come era andata la manifestazione, che inizialmente era partita in modo pacifico e poi aveva avuto questa deriva assolutamente inaccettabile” (Anna Bernasconi).

“L’ex-Macello è stato sgomberato attorno alle 08:30. Come mai è stata una conseguenza o era già previsto?” “Non era assolutamente previsto. Era previsto che se la manifestazione fosse stata pacifica e non avesse… e non fosse andata fuori dai binari della legalità, non ci sarebbe stato nessun tipo di intervento. Viceversa, se ci fosse stata una violazione della legge, insomma, o di violenza. Evidentemente questa è una violazione di legge, perché si tratta di proprietà privata. La polizia sarebbe intervenuta e avrebbe anche valutato l’opportunità di procedere allo sgombero dell’ex-Macello (Marco Borradori per la RSI).

“Nelle loro dichiarazioni è stato molto spesso associata la risposta come conseguenza di come la manifestazione aveva avuto una deriva. Cioè, è solo responsabilità di chi ha fatto prendere alla manifestazione una deriva di questo tipo quello che è successo” (Anna Bernasconi).

“Un gruppo di manifestanti è entrato all’interno dello stabile, quindi di conseguenza sono arrivate delle squadre di polizia anti-sommossa e di conseguenza, ce lo ha confermato il sindaco poco fa, ce lo ha confermato Karin Valenzano Rossi, di conseguenza è stato ordinato lo sgombero del Molino alle ore 20:30”.

“Anche quello è un punto, un punto centrale. Perché, come si può giustificare il fatto di mettere sullo stesso piano le responsabilità di tipo individuale e le responsabilità dello Stato? Lo Stato deve essere sempre e comunque un garante della legalità, per tutti” (Anna Bernasconi).

“Francamente, non capisco perché andare a occupare uno stabile quando ne hanno già un altro, perché stasera non era minimamente previsto uno sgombero” (Marco Borradori).

Fuori dall’accerchiamento di polizia, è arrivata intanto anche l’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico. “È stata proprio una presa di forza, un abuso di potere, secondo me, di dire ‘io sono la polizia, io decido. Adesso dovete stare qua’. Per me è stata un’ottima strategia militare. Nel senso che li hanno bloccati là perché così non potevano andare al Molino, dove era già in atto, non solo lo sgombero, ma proprio l’abbattimento del Molino. Su questo, tanto di cappello a chi ha organizzato strategicamente e militarmente questa azione. Però sono molto preoccupata perché se un’istituzione si permette di agire con una strategia militare a questo livello, vuol dire che siamo davvero in uno stato di polizia” (Avv. Immacolata Iglio Rezzonico).

“Nel giro di pochissime ore si è passati poi appunto a questa demolizione della struttura. A ripensare a quei momenti la situazione è davvero assurda, no?”. “È che c’era tutta la parte abitativa praticamente distrutta. Uno o due camion dei pompieri e una ruspa molto grande, vari operai. Sembrava proprio un cantiere”.

Una delle questioni aperte è quando sono state chiamate queste ruspe? Che sicuramente non si improvvisano in piena notte di sabato a Lugano. Secondo le dichiarazioni ufficiali, lo sgombero e quindi l’abbattimento è stata una reazione all’occupazione. Non era stato deciso prima. “Il protocollo della polizia è stato attivato ieri sera. Le ruspe non erano già pronte. Chi ha portato le ruspe è stato attivato ieri sera. I dipendenti che si sono trovati sul posto per fare l’operazione sono stati allertati solo poco prima” (Karin Valenzano Rossi?). Ma, apparentemente, le cose sono andate in maniera diversa.

“Allora qui sono le mail delle imprese di costruzione, che dimostrano che, appunto, le imprese di demolizione erano state contattate già in precedenza”. Una delle imprese coinvolte avrebbe infatti ricevuto l’ordine di intervento da parte della polizia comunale di Lugano già alle 17:50 di sabato. La possibilità di abbattere uno stabile dell’ex-Macello, sappiamo per certo grazie all’inchiesta del settimanale AREA, che fu ipotizzata ben 73 giorni prima della notte della demolizione. Lo attestano le mail del 12 marzo tra i vertici della polizia cittadina. 12 marzo, pochissimi giorni dopo la manifestazione trans-femminista duramente repressa dalla polizia alla stazione di Lugano. Ne abbiamo parlato nell’episodio dieci.

Le reazioni di chi al Molino era legato

“Cioè non mi sembrava per niente reale, questi fari finti che illuminavano le ruspe che tiravano giù la casetta. Cioè, so che i posti occupati vengono sgomberati, però non me lo aspettavo in quel modo. Cioè, lì è stato veramente proprio una cosa fascista”. “Io provavo tantissimo schifo, proprio, verso la città di Lugano, verso l’autorità, verso la polizia. Tristezza, ovviamente, tantissima tristezza. Però tantissima, tantissima rabbia, proprio… Davanti a quei poliziotti lì non riuscivo a restare calma. Non era possibile”.

“Era una scena apocalittica, ma già prima che arrivassero le ruspe perché era surreale. E poi pensavo a chi ci aveva vissuto negli ultimi periodi, a per chi quel luogo era a casa. Era come sentirle parlare quelle macerie lì, perché non era possibile quello che era successo. Per me, vedere quelle macerie è stato veramente un colpo al cuore, allo stomaco di rabbia, ma di rabbia fortissima. Anche perché tutti venivamo da quella intensità emotiva, già di lutto, di qualche cosa che era successo… Un compagno che non c’era più. Perché in quel momento lì si è rotto, si è rotta la mia vita. C’è un prima e un dopo, capito? Il 9 maggio è morto Paul, il 29 maggio hanno buttato giù il sogno della lotta. E come se nella mia vita qualcosa si è rotto veramente col Molino. C’è per me è stato proprio un mi avete levato tutto. Mi avete levato tutto. Nei giorni precedenti è stato appeso per un bel po’ di tempo lo striscione di Paul. E quindi, non lo so, anche quella parte di casa che è stata abbattuta, il mio ricordo, ovviamente è andato lì, allo striscione. Mi accorgo oggi, ma anche nei mesi scorsi, questa rabbia forte che c’erano e che era una rabbia reale, perché avevano veramente distrutto qualcosa che apparteneva a me e apparteneva anche a Paul, capito?” (piange).

“Io proprio sentivo un caos totale che veniva da qualsiasi parte che mi giravo. C’erano persone in lacrime, persone incazzatissime, persone che stavano lì solo a fissare. E ho visto un poliziotto che era dall’altra sponda del fiume, vicino alla ruspa tipo, e si è girato verso la ruspa quando hanno buttato giù tutto. Si è rigirato e si è messo a ridere. E quella cosa, quella scena, mi è rimasta proprio impressa, in una maniera assurda”. “Questi due poliziotti che da lontano mi guardavano, ridevano tra di loro, e anche per quasi dimostrare quello che lo Stato può fare con la forza, la forza fisica, quindi non la forza reale che hanno, ma la forza attraverso la violenza che possono fare quello che vogliono. Cioè, se qualcuno sfugge al controllo delle autorità, diventa un nemico automaticamente e l’autogestione di per sé sfugge al controllo delle autorità e dunque è un pericolo”.

Stampa e politica

Ed eccoci, siamo arrivati alle macerie che danno anche il titolo a questo podcast. Ci eravamo riproposti di raccontare la storia del Molino e all’improvviso siamo arrivati all’attualità. Le prossime pagine di questo racconto sono ancora da scrivere. Però, prima di chiudere ci sono ancora un paio di questioni aperte. Riprendiamo il racconto della mattina successiva all’abbattimento.

“Vedere proprio quelle macerie, quella mattina è stata una sensazione di un pugno alla pancia, di un gesto comunque violento, inaspettato. E questo silenzio e intravedere soprattutto anche gli oggetti all’interno. Comunque, si vedevano i materassi, i vestiti, i frigoriferi ancora pieni. Le immagini del genere, così, le avevo viste solo nelle zone di guerra o dopo qualche bombardamento. Le macerie con gli oggetti dentro, ancora con la vita che senti, che percepisci, che è ancora all’interno, è qualcosa di molto forte. E lì, appunto, come giornalista, la prima cosa a cui ho pensato è stata di prendere la videocamera e iniziare a filmare, a capire che cosa era successo. Ho seguito la conferenza stampa che è stata allestita per la domenica in municipio ed erano presenti i tre municipali principalmente coinvolti: Karin Valenzano Rossi, Marco Borradori e Filippo Lombardi. È stata subito comunicata la rivendicazione di quello che era successo, della demolizione, come un’operazione di polizia andata a puntino, quindi senza nessuna sbavatura, andata perfettamente” (Anna Bernasconi?). “L’operazione è stata coordinata, era coordinata dalla polizia cantonale con il supporto della polizia comunale di Lugano. Alla fine, le decisioni sono state sottoposte prima, qualche giorno prima, e alla giornata di ieri al municipio di Lugano. Ecco, quindi alla fine la responsabilità, va detto, è del municipio e della città di Lugano” (Marco Borradori in CS).

“Non si è parlato di una demolizione dell’interro stabile, non si è mai parlato di tetti o di cose andate storte, ma anzi proprio con un’operazione, appunto, andata perfettamente, a puntino e senza sbavature, senza sbagli. Un’operazione avvenuta dietro stimolo della polizia. Ma, appunto, il municipio si assumeva completamente la responsabilità di quanto successo” (Anna Bernasconi?). “La polizia si è preparata in modo assolutamente puntiglioso, già per l’idea dello sgombero che era stata lanciata tempo addietro. Quindi tutto è stato preparato a puntino, a puntino vuol dire che è stato preparato anche il peggio. Cioè, se la situazione fosse degenerata, doveva andare esattamente come è andata. E per questo che la definiscono un’operazione da un profilo poliziesco sicuramente giunta a termine nel modo migliore” (Marco Borradori in CS).

“Sono cose che sicuramente hanno colpito, nel senso che un municipio che rivendica come un’operazione avvenuta perfettamente come doveva andare e soprattutto il fatto che l’abbiano subito ricollegata a una conseguenza di un comportamento scorretto o, appunto, illecito, illegale da parte dei manifestanti” (Anna Bernasconi?). “Fosse andato tutto bene e alle 19 si fossero fermati in zona università, niente, non ci sarebbe stato né sgombero né nulla” (Marco Borradori in CS).

“Questo collegare le due cose non può non colpire. Si lascia presupporre che siano messe sullo stesso piano un comportamento presumibilmente illegale di un gruppo di manifestanti o una risposta non proporzionale. Dopo queste iniziali affermazioni, comunque avvenute in un contesto ufficiale come quello di una conferenza stampa, poi, nel corso dei giorni sono state contraddette o comunque sono cambiate molte versioni dei fatti” (Anna Bernasconi?). “Noi non avevamo dato un ordine di sgombero. Sulla demolizione non c’era lo scenario è stata una situazione che, nell’ambito dell’operazione di polizia, è stata portata alla nostra attenzione, alla quale noi abbiamo a maggioranza dato il nulla osta” (Karin Valenzano Rossi in CS?). “Preventivamente, noi non avevamo deciso assolutamente nulla. Né di fare lo sgombero, né di fare la demolizione” (Marco Borradori in CS).

“Poi si è iniziato a parlare del fatto che in realtà la demolizione doveva riguardare solo un tetto pericolante, cosa che però non era mai stata detta in conferenza stampa. Quindi, ecco, anche questo era proprio l’elemento della trasparenza da parte della politica su quanto successo. E io penso che è una cosa che a livello di giornalismo bisogna esigere chiarezza e trasparenza” (Anna Bernasconi?).

Ma chi ha preso la decisione di abbattere il centro sociale? Se lo chiede anche il presidente del governo Manuele Bertoli. “Un conto è lo sgombero, un conto è la demolizione, di cui peraltro non si è mai parlato neanche in governo. Questa è una cosa che dovremmo chiarire con la polizia, in che misura questa cosa era preparata. Nessuno ci ha mai informato di questa possibilità che comunque, anche se fosse stata prevista, non scappa dal principio numero uno, che rimane quello del fatto che non è la polizia che decide da sola. Allora sì, saremo in uno stato di polizia” (Bertoli).

Il lunedì successivo all’abbattimento, i Verdi di Lugano inoltrano una denuncia penale per cercare di fare chiarezza su quanto accaduto prima e durante la demolizione della struttura. Danilo Baratti, portavoce dei Verdi di Lugano: “Questa denuncia formale costringe il municipio a fare chiarezza anche sulle dinamiche politiche di quella notte. L’importante era portare anche su quel piano giudiziario la questione per avere delle risposte, altrimenti delle risposte chiare – magari non si avranno neanche così – sulle dinamiche dei fatti e sulle responsabilità politiche non ci sono, non ci sarebbero state. Perché abbiamo visto che subito dopo sono incominciate a cambiare le versioni, gli scaricabarile, i ‘ma noi non sapevamo… avevamo detto sullo il tetto’. Insomma, tutto questo intorbidire le acque, che si è visto nei giorni successivi, potrebbe essere un po’ chiarito dal risultato di questa inchiesta”.

In dicembre, i primi risultati. Secondo il procuratore generale Andrea Pagani non sono stati ravvisati reati penali. Viene quindi intimato un decreto di abbandono. Leggendo gli atti dell’inchiesta, impressiona la serie di incongruenze, versioni contrastanti e la grande confusione che traspare nella gestione della catena di comando della comunicazione. E sulla notte della demolizione, il procuratore generale scrive: ‘Quel che poi succede ha dell’incredibile’. L’avvocato Costantino Castelli interpone un reclamo. La questione legale, quindi, non è ancora chiusa e sicuramente non è chiusa la questione politica.

“La cosa particolare in questa storia, anche a livello giornalistico, è che le autorità, che dovrebbero essere garanti della legalità, in questa situazione ci sia stato quantomeno il dubbio che non abbiano rispettato le procedure legali. Procedure legali in termini di richiesta di permesso di demolizione di un posto, la verifica della presenza di amianto e di altre sostanze pericolose. Perché non è stato fatto? Questo secondo me è il punto di tutta questa vicenda. Dalla demolizione in poi, non era più l’argomento l’autogestione, l’opportunità dell’autogestione, lo sgombero. Per me era importante fare un’inchiesta su quella notte, su quella demolizione, sulla catena di comando, su chi l’aveva decisa e se fossero state rispettate o meno le procedure legali. Ma proprio perché c’è un alto senso dello Stato, delle autorità, o almeno io ho sicuramente questa enorme fiducia nello Stato che deve essere il primo garante della legalità. E io trovo che non debba lasciare spazio a dubbio alcuno che non siano state rispettate le procedure legali, perché sarebbe gravissimo. Molto spesso, si sono un po’ confusi i piani anche, a livello giornalistico, trovo. Nel senso che si è parlato tanto di opportunità, di autogestione o meno. In questo caso è fuorviante, perché c’è stata una demolizione ed è lì che bisogna fare chiarezza e credo che si faccia cattiva informazione nel confondere questi piani” (Anna Bernasconi?).

La reazione all’interno del Movimento e della popolazione

L’analisi politica fatta all’interno del Movimento è naturalmente molto diversa. “Per me, fondamentalmente, il fatto che loro abbiano fatto questo gesto ha palesato quello che le autorità possono essere”. “Entri nella visione repressiva del mondo”. “In cui distruggi la casa. Se succede in Palestina, perché lo Stato di Israele distrugge sistematicamente una casa di una famiglia palestinese, dici ‘vabbè, sono questioni quasi esotiche, non mi danno fastidio’. Ma lo fai a Lugano, nel centro dell’Occidente, nel centro di tutto, il che scuote la coscienza, no?”.

“Quello che mi sono detto è ‘ecco, questo è quello che sono quelli che stanno dall’altra parte. Quindi lo Stato, questo è il livello di infamità che possono raggiungere’. Fare un gesto così è stata la conferma”. “Lo Stato ha applicato la sua violenza e il suo sistema violento”. “Non lo so, le prime frasi che ci siamo dette, sono state anche quelle più forti di prima. Perché comunque, quando fanno queste azioni così violente ti dimostrano appieno chi sono, cosa sono, cosa vogliono e quindi ti rafforzi anche le tue idee, in un certo senso. Allora ti dici ‘ma allora io sto lottando veramente per qualcosa di giusto’. E poi la grande solidarietà. questo è stato un aiuto al cuore, ma proprio indispensabile”.

Nei mesi successivi la reazione della popolazione è stata forte. Il lunedì dopo lo sgombero, un’Assemblea in piazza con centinaia di persone e poi un corteo notturno sotto casa del sindaco. Il sabato dopo, migliaia di persone in piazza, oltre 6000 firme raccolte in pochi giorni e poi tutta una serie di manifestazioni, assemblee e attività sociali, culturali e politiche nelle piazze e nei parchi. L’iniziativa dell’UDC contro l’autogestione fallisce, non riesce a raggiungere un numero sufficiente di firme. Alla cerimonia pubblica del 1° di agosto le autorità vengono sonoramente fischiate. Un’estate e un autunno caldi, nonostante l’ondata repressiva che si abbatte sul Movimento, nella forma di una grande inchiesta contro l’autogestione.

La gestione dell’indagine di polizia

Sono oltre 40 le persone convocate per interrogatori a causa della loro presunta attività militante. Ce ne parla l’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico, che ha seguito da vicino la questione: “È nata, tra l’altro, come indagine di polizia. C’è la possibilità, per legge, se c’è un grande pericolo, la polizia può avviare delle indagini da sola, per poi dopo riferire ovviamente alla Procura. Sono convocazioni che sono cominciate nei mesi scorsi, partendo però dai fatti dell’8 marzo. Quindi, se c’era tutta questa urgenza, magari si poteva partire anche un po’ prima. Invece sembra che si è aspettato tutto, appunto queste manifestazioni, questi eventi eccetera, per poi metterli tutti insieme e fare circa una quarantina di citazioni con capi di imputazione differenti (violazione di domicilio, sommossa, lesioni di autorità pubbliche, dissimulazione del volto…) – ci sono varie tipologie di reati –, ma fondamentalmente, per come erano strutturati gli interrogatori, sembravano quasi più delle schedature che non dei rilievi ai fini delle indagini vere e proprie. Ci hanno raccontato, appunto, l’atteggiamento molto intimidatorio di alcuni agenti che facevano gli interrogatori, ma soprattutto le modalità di perquisizione, di rilevamento delle impronte, che sono stati fatti anche in maniera violenta, in maniera sproporzionata e spropositata rispetto a quello che era anche l’ordine della Procura di fare questi tipi di rilievi. Su alcuni di questi casi sono stati fatti dei reclami alla Camera penale dei reclami. Siamo in attesa di vedere che cosa risponderanno. Ci sono state queste 40 citazioni dove però fondamentalmente non c’era veramente il reato, ma si cercava di trovare la possibilità di far parlare le persone e riuscire a costruire davvero il capo d’imputazione per poterlo portare poi a processo. Su 40 capi di imputazione, forse una decina, forse, potrebbero sfociare in procedimenti penali. Portare avanti delle inchieste sul nulla, oltre che essere un grande spreco di soldi, porterebbe anche un po’ una situazione di… parlare di ridicolo, mi sembra un po’ esagerato, però, insomma, per la Procura stessa… Cioè, stai portando avanti dei procedimenti che non hanno sussistenza, ecco, questo sì”.

E ora?

C’è poi un processo in corso ancora più interessante, che è quello che avviene dal basso, nelle strade e nelle piazze, nelle varie assemblee, fra i gruppi che si incontrano e si organizzano. Un’ampia e variegata mobilitazione che forse, ma non per forza, porterà all’ottenimento di uno o più nuovi spazi.

“Io credo che la stragrande maggioranza delle persone, immediatamente dopo lo sgombero, si aspettava l’ottenimento di un altro posto”. “E mi ricordo anche che da parte di alcune persone, magari quelle poche esterne, c’era… sì, questa cosa di dire ‘ok, ma dobbiamo riprendere un posto, dobbiamo agire, dobbiamo fare, cosa facciamo?’. C’era proprio mettere molta, molta pressione e molta fretta”. “Sicuramente è una questione importante il fatto di avere uno spazio o più spazi, ma forse siamo anche tanto abituati a un modo di fare molto frenetico, che può essere dettato appunto dai media che vogliono: ‘adesso hanno sgomberato un posto, quindi devono prenderne un altro’. Forse alcuni processi possono prendere settimane, mesi o anche anni per costruire delle nuove opportunità e possibilità”.

“C’era un po’ quella confusione di dire ‘ok, ma siamo ancora il Molino, il Molino c’è ancora, il Molino non c’è più, come andiamo avanti, come chiamiamo l’Assemblea’. E ci si è dovuti proprio prendere un po’ di tempo per riflettere individualmente, per riflettere collettivamente su cosa stava succedendo e cosa stava cambiando, su come anche fare delle assemblee, se aveva senso continuare a farle in piazza, se aveva senso continuare a chiamare quelle assemblee, diciamo assemblee del Molino, e infatti si è scelto di no. C’era tutto un momento proprio di… sì, di riflessione, di elaborazione che sicuramente non è stato evidente. Perché comunque il Molino c’era da tanto tempo, si portava dietro tante dinamiche, tante storie, tante persone che lo hanno attraversato e quindi con lo sgombero c’è stato proprio tutto un momento in cui ci si è dovuti un po’ reinventare. Anche di pensare agli errori fatti all’interno del Molino, alle dinamiche che lì dentro probabilmente non andavano più tanto bene, per costruire, reinventare qualcosa che non le comprendesse più queste dinamiche”. “E trovo che è stato proficuo. Si coglie l’essenza, in fondo, di questa idea dell’autogestione, no? Da qualche parte, forse, non avere un posto ce l’ha fatto veramente capire meglio, lo ha fatto capire meglio a tanta gente che prima magari era un po’ solo cliente”.

“Quando c’è stato lo sgombero, molta gente si è unita e c’era molto questa sensazione di rabbia, ma anche proprio voglia di andare avanti, di combattere comunque. Però io sentivo un’energia diversa, una voglia proprio anche di fare qualcosa contro, ma quasi in un modo un po’ più attivo. E dunque, non lo so, mi sono sentita proprio quasi rinascere, in quel momento di lotta”.


Credits

Macerie è realizzato da un collettivo coordinato da Olmo Cerri: Cy, Esteban, Gerard, Mattia, Paco, Ushi,  Mirella, e tutte e tutti coloro che hanno portato il loro contributo. Le musiche sono di Victor Hugo Fumagalli, Artemondi e Incompetech. La grafica è curata da Complice Press, il supporto produttivo è assicurato dall’Associazione REC. Gli estratti audio provengono dagli archivi del CSOA il Molino e dalla sua rassegna stampa.