di Giorgio Thoeni / Azione 8 novembre 2021

È dai primi anni Settanta che sul nostro territorio vi sono state manifestazioni di aggregazione giovanile, soprattutto legate alla rivendicazione di uno spazio autogestito e alternativo a un sistema votato alla logica del profitto. La loro storia è anche cronaca di diversità, di differenti punti di vista nell’affrontare i problemi legati a un luogo autonomo a dimostrazione di una responsabilità sociale che vive e si forma collettivamente. Nei rapporti con le istituzioni la gestione del dialogo non sempre si è rivelata possibile. Come più recentemente, dove ha assunto i contorni di un dialogo fra sordi per alimentare una storia infinita all’ombra delle macerie dell’ex-Macello abbattuto dalle ruspe. Tutt’altro che metaforiche. Pesano infatti sulla coscienza collettiva di un’intera città, Lugano nella fattispecie, di una comunità allargata che ingloba tutti i suoi attori principali: i giovani, la cultura, la classe politica, l’amministrazione, l’ordine pubblico, la popolazione. Olmo Cerri, videomaker, realizzatore di film e documentari per la radio e la televisione, da ottobre coordina un podcast collettivo sulla storia dell’autogestione in Ticino dal titolo Macerie (spreaker.com/show/macerie). È un documento prezioso, un racconto a più voci che ricostruisce e restituisce la memoria in un ingranaggio collettivo: un modo per riflettere su quello che siamo e su quello che vogliamo diventare, recita la presentazione, per risalire il fiume del tempo, per socializzare la nostra storia con occhio critico, per costruire narrazioni che possano innescare un conflitto. Una narrazione che non vuole essere una presa di posizione ma il ricordo di un’esperienza, istantanee di luoghi, situazioni e stati d’animo di chi è rimasto orfano di qualcosa di essenziale e alternativo. Oggi un’assenza colpevole che chiama a confronto le premesse culturali e la tolleranza necessaria per dare spazio all’autogestione.

È un racconto appassionato ed è chiaro che sono molto vicino a questa storia, politicamente ma anche affettivamente, racconta Olmo Cerri. Era importante per me ma anche per tutto il gruppo di persone che ci hanno lavorato di non fare un progetto con un taglio pubblicitario. Il Molino in 25 anni ha avuto anche momenti di difficoltà. È un’esperienza che coinvolge tantissime persone, anche con le loro contraddizioni, aspetti forse difficili da capire (…) ma era importante raccontare anche quei momenti. È chiaro che c’è della passione e del rispetto. Però c’è anche un po’ di senso critico sulle cose che non hanno funzionato e forse che era inevitabile che non funzionassero. Perché si parte con delle aspettative altissime, con ideali e utopie e poi si scontrano con la realtà della società.

Con l’esperienza dell’autogestione si viene a creare una microsocietà dalle regole decise collettivamente. È in quel momento in quel momento, come ci dicono le testimonianze, che rischiano di crearsi delle gerarchie, dei meccanismi di potere che non si vorrebbero ma che in parte sono presenti anche nell’assemblea, la vera voce collettiva da cui nascono tutte le decisioni… È inevitabile, continua Cerri, appena inizi a costruire, a organizzare, sia l’assemblea sia la gestione degli spazi richiedono dei compromessi. Il bello del Molino -lo si capisce dal podcast- è che in tutte le sue fasi ha cercato attivamente di fare qualcosa per evitare che si creassero dei leader, dei portavoce identificati in una sola persona o dei comitati che prendono il potere sull’assemblea dove vengono davvero prese tutte le decisioni. È un esercizio costante volto a smontare meccanismi di potere che potrebbero portare a un’organizzazione piramidale.
Quante persone sono state coinvolte per la realizzazione di Macerie?

Siamo una decina di persone. Un gruppo si occupa dell’aspetto editoriale e un altro della parte tecnica, cioè la post produzione e il mixaggio finale. C’è un musicista per la colonna sonora, Victor Hugo Fumagalli e i ragazzi di ComplicePress a cui è stata affidata la grafica e l’immagine del podcast.
A questi si aggiungono anche coloro che contribuiscono con la propria testimonianza. Fino ad ora sono più di venticinque e corrispondono a decine e decine di ore di interviste.
Sono storie intricate. Ci vuole un po’ di tempo per capirle. Bisogna mettersi d’accordo, prendere appuntamento. Qualcuno di loro nel frattempo ha lasciato il gruppo per fare altro. Non è facile ma è bello e i momenti dedicati alle interviste sono sempre arricchenti. Sono stato per molti anni molto vicino al Molino però certe cose non le sapevo. L’occupazione non l’avevo vissuta e ho scoperto tanti elementi interessanti, emozionanti e divertenti. Tutti i protagonisti si rendono conto che questa è una storia che ha una certa importanza e che non è ancora stata raccontata. Una storia che vogliono raccontare e raccontare bene, con un grande senso di responsabilità a dimostrazione di una realtà svuota di sogni e di utopie.
Una città senza Molino, conclude Olmo, è più povera.